lunedì 17 marzo 2025

TRADUZIONE AGGIORNATA DELLA DECLARATIO DI S. SANTITA' PAPA BENEDETTO XVI

 

ANALISI ATTENTA E TRADUZIONE DELLA “DECLARATIO”

DI PAPA BENEDETTO XVI CON LA QUALE ANNUNCIAVA LA RINUNCIA AL “MINISTERIUM” E NON AL “MUNUS”  (febbraio 2013)

 

Primo passo:  ascoltare bene la registrazione tramite il presente link

 

https://youtu.be/cknjxlZCQqc?si=kvF6BofCUAyodvWm

Differenze di traduzione:

 1^ versione  “commisso” scritto sul documento   anziché “commissum” pronunciato chiaramente dal Santo Padre nella registrazione.

 2^ versione :             in eligendo novo Summo Pontifice

                                        eligo  =  strappare via

 

 CONCISTORO ORDINARIO PUBBLICO - DECLARATIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI SULLA SUA RINUNCIA AL MINISTERO DI VESCOVO DI ROMA, SUCCESSORE DI SAN PIETRO, 11.02.2013

Nel corso del Concistoro Ordinario Pubblico per la Canonizzazione di alcuni Beati, tenuto alle ore 11 di questa mattina, nella Sala del Concistoro del Palazzo Apostolico Vaticano, durante la celebrazione dell’Ora Sesta, il Santo Padre Benedetto XVI ha fatto ai cardinali presenti il seguente annuncio:

DECLARATIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Fratres carissimi

Non solum propter tres canonizationes ad hoc Consistorium vos convocavi, sed etiam ut vobis decisionem magni momenti pro Ecclesiae vita communicem. Conscientia mea iterum atque iterum coram Deo explorata ad cognitionem certam perveni vires meas ingravescente aetate non iam aptas esse ad munus Petrinum aeque administrandum.

Bene conscius sum hoc munus secundum suam essentiam spiritualem non solum agendo et loquendo exsequi debere, sed non minus patiendo et orando. Attamen in mundo nostri temporis rapidis mutationibus subiecto et quaestionibus magni ponderis pro vita fidei perturbato ad navem Sancti Petri gubernandam et ad annuntiandum Evangelium etiam vigor quidam corporis et animae necessarius est, qui ultimis mensibus in me modo tali minuitur, ut incapacitatem meam ad ministerium mihi commissum bene administrandum agnoscere debeam. Quapropter bene conscius ponderis huius actus plena libertate declaro me ministerio Episcopi Romae, Successoris Sancti Petri, mihi per manus Cardinalium die 19 aprilis MMV commisso (versione esatta commissum) renuntiare ita ut a die 28 februarii MMXIII, hora 20, sedes Romae, sedes Sancti Petri vacet et Conclave ad eligendum novum Summum Pontificem ab his quibus competit convocandum esse.

Fratres carissimi, ex toto corde gratias ago vobis pro omni amore et labore, quo mecum pondus ministerii mei portastis et veniam peto pro omnibus defectibus meis. Nunc autem Sanctam Dei Ecclesiam curae Summi eius Pastoris, Domini nostri Iesu Christi confidimus sanctamque eius Matrem Mariam imploramus, ut patribus Cardinalibus in eligendo novo Summo Pontifice materna sua bonitate assistat. Quod ad me attinet etiam in futuro vita orationi dedicata Sanctae Ecclesiae Dei toto ex corde servire velim.

Ex Aedibus Vaticanis, die 10 mensis februarii MMXIII

                                     BENEDICTUS PP XVI

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●PRIMA TRADUZIONE IN LINGUA ITALIANA

Carissimi Fratelli,

vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20,00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice.

Carissimi Fratelli, vi ringrazio di vero cuore per tutto l’amore e il lavoro con cui avete portato con me il peso del mio ministero, e chiedo perdono per tutti i miei difetti. Ora, affidiamo la Santa Chiesa alla cura del suo Sommo Pastore, Nostro Signore Gesù Cristo, e imploriamo la sua santa Madre Maria, affinché assista con la sua bontà materna i Padri Cardinali nell’eleggere il nuovo Sommo Pontefice. Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio.

Dal Vaticano, 10 febbraio 2013

BENEDICTUS PP XVI

 

ULTIMA VERSIONE COMPLETA - E CORRETTA - DELLA DECLARATIO

(Dal canale "Codice Ratzinger") 14/03/2025

 

Fratelli carissimi, vi ho convocati a questo Concistoro non solo a causa delle tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza a vantaggio dell’esistenza della Chiesa.

Dopo aver esaminato più e più volte la mia coscienza davanti a Dio, sono giunto alla consapevolezza certa che per il peso degli anni le mie forze non sono più adeguate ad amministrare l’ufficio (munus) petrino. Sono ben consapevole che questo “munus”, secondo la sua essenza spirituale, debba essere reso esecutivo non solo con l’azione e la parola, ma altresì con la sofferenza e la preghiera.

Tuttavia, nel mondo della nostra epoca soggetto a rapide trasformazioni e sconvolto da questioni di grande peso per la vita della fede, per governare la nave di San Pietro e per annunciare il Vangelo è necessario anche un certo vigore del corpo e dell’anima, che negli ultimi mesi in me è diminuito in modo tale, che devo riconoscere la mia incapacità ad amministrare bene il “ministerium” che mi è stato affidato.

Per cui ben consapevole del peso di quest’atto dichiaro in piena libertà di rinunciare a mio danno al ministerium di vescovo di Roma, successore di San Pietro, a causa del misfatto di un manipolo di Cardinali nel giorno 19 aprile 2005, così che dal giorno 28 febbraio 2013, all’ora ventesima, la sede di Roma, la sede di San Pietro resti vuota, e dichiaro che dovrà essere convocato un conclave per l’elezione di un nuovo Sommo Pontefice da parte di questi a cui compete.

Fratelli carissimi, vi ringrazio di tutto cuore per tutto l’amore e la solerzia con cui avete portato con me il peso del mio “ministerium”, e vi chiedo perdono per tutte le mie mancanze.

Ora affidiamo la Santa Chiesa di Dio alla cura del suo Sommo Pastore, il nostro Signore Gesù Cristo, e imploriamo sua Madre Maria che assista con la sua materna bontà i padri Cardinali nell'estirpare il nuovo Sommo Pontefice. Per quanto mi riguarda, anche in futuro vorrei servire di tutto cuore la Santa Chiesa di Dio con una vita dedicata alla preghiera. _________________________________________________

LINK PETIZIONE: SUPPLICA AL REGGENTE: CHIEDIAMO VERITA’ ASSOLUTA SULLA SEDE IMPEDITA DI BENEDETTO XVI  DOPO ANTIPAPA FRANCESCO

 https://www.petizioni.com/supplica_al...

 

 

 

martedì 4 marzo 2025

I QUARESIMALI E IL TEMPO PASQUALE


I QUARESIMALI

Riflessioni su “Il tempo pasquale e la Quaresima”

di Ferdinando Rancan


Brani dal libro “La moneta del tempo”

 

Introduzione

 

In questo periodo dell’Anno Liturgico che precede la Pasqua, definito “Quaresima”, la Chiesa ha sempre consigliato ai vari sacerdoti, parroci o religiosi, di preparare i fedeli attraverso predicazioni sul mistero della Passione di Gesù Cristo completate da preghiere e benedizioni, dette appunto “quaresimali” della durata di 40 giorni prima della festa della Santa Pasqua.

            Il numero “quaranta” ricorre spesso nella Sacra Scrittura: per 40 giorni Gesù rimase nel deserto a pregare in vista della sua passione; 40 giorni furono i giorni di durata del diluvio universale; 40 giorni fu il periodo in cui Mosè rimase in preghiera sul monte Sinai; il profeta Elia percorse il deserto per 40 giorni; l’esodo degli ebrei dall’Egitto alla terra promessa durò circa 40 anno ecc. ecc.

            Abbiamo pensato con l’occasione, di offrire ai nostri amici la lettura di alcuni scritti su questo argomento, di don Ferdinando Rancan, sacerdote diocesano in concetto di santità, che molti di voi hanno già conosciuto e apprezzato, anche se mai conosciuto in vita.

I brani che seguono sono stati copiati dal libro “La moneta del tempo” un calendario per l’anima, nel quale l’autore presenta e approfondisce il significato dell’anno liturgico che inizia col periodo di “Avvento” in preparazione al Natale, prosegue con le varie festività Liturgiche come la Pasqua, la Pentecoste, la Santissima Trinità, il Corpus Domini… e termina con la solennità di tutti i Santi e la festa di Cristo Re dell’Universo, ma si sofferma anche nel descrivere il significato di ogni giorno della settimana, in particolare della Domenica, con le varie devozioni ad essi attribuite e il loro collegamento con la Sacra Scrittura.

I Santi sono d’accordo nell’affermare l’importanza che ha una buona lettura spirituale fatta quotidianamente, magari solo per 10/15 minuti, però con costanza, soprattutto del Vangelo, perché si rischia altrimenti di rimanere con una formazione da bambini della Prima Comunione (ammesso che sia stata fatta bene anche questa preparazione coi tempi che corrono!), e poi si pretende di dare un giudizio su tutto ciò che accade nella Chiesa, anche dal punto di vista spirituale e teologico!! quando alla base della nostra formazione c’è spesso lo zero assoluto o l’ignoranza più evidente quando non anche la malafede nel giudicare fatti e persone che magari non spiccano per la loro santità. E’ come pretendere di spiegare le leggi della fisica quantistica con il diploma di terza media, eppure tutti o quasi si ritengono in grado di salire in cattedra e spiegare il perché della vita e della morte, del peccato e della redenzione, ecc. ecc.

Anche questo libro, come quasi tutti quelli di don Rancan, è chiaro, profondo ma anche semplice nella sua esposizione e ha il privilegio di riempire il cuore di gioia mano a mano che lo si legge perché come dice Gesù, “La Verità ci fa liberi” e la libertà rende felici.

Reperibile presso la Casa Editrice “Fede e Cultura” di Verona che lo invia a domicilio (tel. 045/941851).  Auguriamo a tutti buona lettura che ci permetta di conoscere non tanto una dottrina più o meno impegnativa, per quanto avvincente e affascinante, ma una figura umana-divina che ci ama personalmente, che ha dato la vita per ognuno di noi, che continuerebbe a darla nel modo più cruento per salvarci dal fuoco eterno dell’inferno, e questa figura meravigliosa si chiama GESU’ CRISTO.  Se non lo conosciamo, neppure possiamo seguire la sua dottrina e pertanto non possiamo dirci cristiani. Fare l’esperienza personale di Gesù come Uomo-Dio e di quanto ci ama, è stato spesso motivo della conversione dei più grandi Santi.  Buona lettura e buona Quaresima.

 

 

                                                 IL TEMPO PASQUALE

 N. 1     – Il mercoledì delle Ceneri

 

Il tempo pasquale comprende tre momenti liturgici di grande intensità: la Quaresima, la Pasqua, la Pentecoste.

La Quaresima ci chiama alla conversione e alla lotta contro tutto ciò che nella nostra vita si oppone a Dio; la Pasqua celebra la passione, morte, risurrezione del Figlio di Dio fatto uomo, il quale ci ha amati e ha dato sé stesso per noi; la Pentecoste ci comunica i frutti della Pasqua, cioè lo Spirito Santo e la Chiesa. E' un periodo di quattordici settimane, e risulta dalla dilatazione progressiva della Veglia pasquale che veniva celebrata con grande solennità nelle prime comunità cristiane.

            La Quaresima inizia nel Mercoledì delle Ceneri con un austero rito penitenziale. Le ceneri, ottenute per incenerimento dei ramoscelli d'olivo, hanno avuto fin dall'antichità un significato penitenziale. "Sedere nella cenere" significava riconoscere la propria povertà e la propria nullità. La Chiesa utilizza questo significato imponendoci le ceneri sul capo per aiutarci ad abbandonare ogni nostra superbia. Si sa, la superbia è la radice di ogni peccato e perciò è il più radicato dei vizi umani. Si dice che la superbia muore un giorno dopo la nostra sepoltura ed è così connaturata al nostro animo da non poterla riconoscere e smascherare senza l'aiuto della grazia di Dio.

            Inoltre, ce ne dimentichiamo così facilmente che la Chiesa nel rito delle Ceneri quasi ci invita a metterci davanti alla nostra tomba dicendoci: "Ricordati che sei cenere, e in cenere ritornerai!". La Chiesa nel ricordarci la poca cosa che siamo non intende scoraggiarci nei nostri progetti di bene o nei nostri sforzi nobili e coraggiosi di impegno in questo mondo come se proclamasse l'inutilità di tutto ciò che facciamo, vuole semplicemente invitarci a deporre ogni superbia, ogni considerazione falsa e disordinata di noi stessi, ogni appropriazione ingiusta dei doni di Dio come se fossero merito nostro di cui gloriarci davanti agli uomini.

            La superbia non solo ci impedisce di riconoscere Dio e quindi di orientare verso di Lui la nostra vita (conversione), ma ci impedisce anche di riconoscere i nostri peccati e quindi di pentircene e di emendarli con la penitenza. La superbia è il vero nemico dell'anima ed è l'unico peccato che ci fa somiglianti a Lucifero. Perciò la Chiesa imponendoci le Ceneri ci invita all'umiltà e ci addita il cammino penitenziale della Quaresima, che si può riassumere nelle tre indicazioni che Gesù stesso ci ha dato: preghiera, elemosina e digiuno.

            La preghiera è l'aprirsi dell'anima a Dio: è la conversione, l'inizio della fede; l'elemosina è il dischiudersi del cuore verso il prossimo: è la misericordia con le sue opere, segno certo della contrizione del cuore, “l'elemosina - infatti - copre la moltitudine dei peccati"; il digiuno è il dischiudersi del corpo e dei nostri sensi alla riparazione: è la penitenza.  In tutto questo occorre la sincerità interiore. Proprio nel giorno delle Ceneri, parlandoci della preghiera, del digiuno e dell'elemosina, il Signore nel Vangelo ci mette in guardia dall'ipocrisia. Gesù parla dell'ipocrisia di fronte agli uomini, ipocrisia che ci porta ad agire tenendo conto del giudizio e del plauso umano, ma essa nasce dall'ipocrisia interiore, quella che ci porta alla penitenza, alla preghiera e alle opere buone ma senza una vera umiltà, senza una lotta sincera contro tutto ciò che ci allontana da Dio, e senza il fermo proposito di usare i mezzi idonei per una vera conversione.

Presentandoci Gesù lottatore contro il maligno, la Liturgia ci invita ad una più rigorosa austerità nella vita, ad essere più forti nel respingere il male e più decisi nel volere il bene. La società del benessere e del facile consumismo in cui viviamo, ci ha resi tutti più fragili, più deboli, più restii al sacrificio e all'impegno. All'inizio della Quaresima ci viene estremamente opportuno ricordare l'avvertimento di Gesù: il Regno dei Cieli esige "violenza" e solo i violenti lo possono conquistare.

  

N. 2-   – L’itinerario quaresimale

 La Quaresima assunse così il significato di un cammino verso la Pasqua con riferimento soprattutto al Battesimo. Particolari esercizi penitenziali erano previsti per due categorie di persone: i catecumeni e i penitenti. La Quaresima dei catecumeni era pre-battesimale e aveva lo scopo di preparare al battesimo i convertiti attraverso un'assidua catechesi sulle verità della fede cristiana e una purificazione della condotta che garantisse il cambiamento di vita dalle abitudini pagane.

            La Quaresima dei penitenti era post-battesimale ed era ordinata alla riconciliazione dei pubblici peccatori che, allontanati dalla comunità per la loro condotta, venivano sottoposti a pubblica penitenza, in "cenere e cilicio", prima di essere ammessi a partecipare all'Eucarestia; la riconciliazione avveniva appunto nel giovedì santo.

            Per noi oggi la Quaresima potrebbe rivestire spiritualmente ambedue i significati: catecumenale e penitenziale. Noi abbiamo già ricevuto il battesimo, ma la ricchezza di questo sacramento è tale da non essere mai esaurita; tutta la vita cristiana è vita battesimale e si configura come un progressivo sviluppo della grazia e della vita divina ricevute nel battesimo. Inoltre, il battesimo è anche il sacramento della fede, e la fede è suscitata in noi dalla Parola di Dio. Ora, la Parola di Dio richiede un continuo ascolto interiore senza il quale la fede battesimale rimarrebbe come un seme inaridito e infecondo. La stessa santità cristiana non è che la pienezza della vita battesimale. Ogni cristiano è perciò un battezzato e insieme un catecumeno.

            L'aspetto catecumenale della Quaresima giustifica la centralità e l'importanza della Parola di Dio durante questo tempo liturgico. Troppi cristiani sono rimasti allo stadio infantile nella loro formazione religiosa o non hanno saputo assimilare né approfondire quello che hanno ricevuto; per molti, poi, la contro-catechesi delle teorie laiciste e della mentalità secolarizzata, così abbondantemente dispensata dai mass-media, si è sovrapposta alla prima semina del Vangelo nella loro anima fino a rendere l'insegnamento di Cristo completamente ininfluente sulla loro vita. Per molti battezzati è perciò necessaria una rievangelizzazione, e comunque per tutti noi è indispensabile un ascolto più sincero e interiore della Parola di Dio. Ci serve perciò un accostamento umile e profondo alla catechesi della Chiesa per alimentare quella fede ricevuta nel battesimo, fede che dev’essere tanto più forte ed efficace quanto più lontano da essa, e spesso ostile, è l'ambiente in cui dobbiamo viverla e testimoniarla.

            L'aspetto penitenziale della Quaresima interessa ugualmente tutti i cristiani. La nostra prima conversione, e lo stesso sacramento del battesimo, non hanno tolto dalla nostra anima le radici del peccato, né hanno spento le inclinazioni al male; esse restano in noi e sono la causa di tanti nostri cedimenti, debolezze e peccati personali. Siamo dunque tutti peccatori, bisognosi di penitenza e di continua conversione. La Quaresima si caratterizza così come "tempo forte", tempo di lotta e di impegno ascetico. E' una lotta che si conduce su più fronti, perché il male non è solo dentro di noi, conta anche alleati esterni che agiscono nel mondo come nemici di Dio: il demonio e lo spirito mondano.

 

 N. 3.   LA PRIMA DOMENICA DI QUARESIMA

             La Prima domenica di Quaresima ci presenta subito la figura di Cristo come lottatore: affronta il demonio che lo aggredisce con le sue tentazioni. Gesù subì soltanto tentazioni esterne dal momento che la sua perfetta integrità morale e la sua assoluta santità non erano compatibili con il disordine della concupiscenza e con le inclinazioni al male - tentazioni interne - che caratterizzano la nostra condizione di peccatori: “Fu in tutto simile a noi tranne che nel peccato" dirà San Paolo. Gesù tuttavia volle essere tentato dal diavolo per due motivi: primo, per riparare la nostra sconfitta. Il demonio infatti travolse i nostri progenitori con le sue suggestioni; ora egli continua ad agire nel mondo e, non potendo far nulla contro Dio, si accanisce contro l'uomo, cioè contro la creatura che porta il sigillo e l'immagine di Dio. Gesù mettendosi al nostro posto sostituì la nostra sconfitta con la sua vittoria. Secondo motivo, volle essere tentato per insegnarci come dobbiamo lottare e vincere nelle nostre tentazioni. Innanzitutto egli ci insegna a smascherare l'inganno. Ogni tentazione è essa stessa un inganno, è il tentativo di far apparire come bene ciò che non lo è, di farci credere che troveremo la felicità in ciò che appaga la nostra superbia e la nostra concupiscenza anche se offende Dio e va contro la sua volontà. Il demonio usa le cose buone per tentarci al male, così come ha usato la Parola di Dio per tentare Gesù.

In secondo luogo, Gesù ci insegna a non discutere con la tentazione; egli semplicemente la respinge. Il primo cedimento sta nel dialogare con il nemico; occorre invece prevenire, fuggire le occasioni, resistere prontamente e con decisione spegnendo le prime avvisaglie di suggestione.

            In ogni caso occorre conservare una grande fiducia in Dio che non ci lascia mai soli nella prova, e una serenità interiore che ci mantenga la lucidità di coscienza. La tentazione, per quanto violenta, sfacciata e accompagnata da turbamenti sensibili, non è ancora peccato finché non c'è la nostra piena e consapevole accettazione. Spesso il Signore permette che siamo tentati per saggiare la nostra fedeltà, per mantenerci umili e vigilanti dandoci una più profonda conoscenza di noi stessi, e per farci acquistare esperienza che ci conduca a comprendere, amare ed aiutare i nostri fratelli nelle loro cadute. Del resto, nessuno può mai vincere una tentazione senza la grazia di Dio. Perciò è indispensabile la preghiera, che diventa la nostra arma più efficace e, se umile e perseverante, sorgente sicura di vittoria. In fondo, il primo e peggior nemico che abbiamo siamo noi stessi; il demonio, dice S. Agostino, è un cane legato a catena che, abbaiando, cerca di impaurirci, ma morde solo quelli che gli si avvicinano. Le promesse battesimali contengono un categorico rifiuto di seguire il demonio: "Rinunci a Satana, causa e origine di ogni peccato?" - "Rinuncio!".

            L'aspetto battesimale e l’aspetto penitenziale della Quaresima, presentandoci Gesù lottatore vittorioso sul male che c'è in noi e nel mondo servono anche a ricordarci che la nostra vita sulla terra è una milizia, una milizia che, se lo vogliamo, avrà l'appannaggio della vittoria perché Lui ha vinto.

 

 N. 4.   Aspetto sacrificale della Pasqua di Cristo

 La Quaresima, come ogni itinerario, ha la sua meta: è l'incontro con Cristo nel suo mistero pasquale di morte e risurrezione. L'itinerario battesimale della Quaresima approda alla Pasqua sacrificale di Cristo: il Battesimo conduce all'Eucaristia. Abbiamo visto che il battesimo ci ricorda l'aspetto salvifico della pasqua prefigurato nella pasqua ebraica dell'Esodo, mentre l'Eucaristia ci ricorda la pasqua sacrificale di Cristo. I due aspetti sono intimamente legati tra loro perché non ci può essere l'uno senza l'altro. Il Battesimo e l'Eucaristia sono sgorgati dal sacrificio di Cristo: "dalla ferita del suo fianco effuse sangue ed acqua, simbolo dei sacramenti della Chiesa". Dunque il centro della Pasqua cristiana è il sacrificio della Croce. Infatti, prima di essere un atto salvifico che ripara i nostri peccati, il sacrificio di Cristo è un atto di culto a Dio, un atto di obbedienza al Padre, e diventa salvifico proprio perché è un atto di adorazione al Padre.

            C'è un episodio dell'Antico Testamento che ci ricorda l'aspetto sacrificale della Pasqua cristiana ed è riportato in una delle sette letture bibliche che si leggono nella Veglia della notte di Pasqua: l'episodio del sacrificio compiuto da Abramo. Abramo aveva avuto miracolosamente un figlio, Isacco, che secondo la promessa di Dio doveva garantirgli la discendenza "numerosa come le stelle del cielo e come l'arena del mare". Ma, quando fu cresciuto, Dio lo chiese ad Abramo in olocausto. Quel figlio era il suo unigenito, in lui Abramo aveva riposto tutto il suo amore, la sua speranza, il suo futuro. Il racconto, scarno e lineare, è carico di intensità drammatica: Isacco, con il carico della legna sulle spalle, seguiva il padre che lentamente saliva il monte Moria, l'attuale Calvario. Il silenzio pesava più del sudore, più della fatica, più della montagna. Improvvisamente una domanda, greve come il rumore dei passi: "Padre mio!... Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov'è l'agnello per l'olocausto?" - "Dio provvederà, figlio mio!" E sul monte Moria Dio provvide; vi fece trovare l'agnello per il sacrificio. Anche Cristo, portando la croce sulle spalle, salì il Calvario seguendo la volontà del Padre e offrendo sé stesso come Agnello innocente, fu sacrificato al posto di tutti noi.

            A questo episodio non si dà, di solito, un significato strettamente pasquale, e tuttavia è l'episodio che più di ogni altro si addice, profeticamente, al sacrificio di Cristo; viene infatti ricordato nella prima Prece eucaristica della Messa. Fu un sacrificio di obbedienza, cioè di adorazione alla volontà del Padre. In questo sta tutto il valore della passione e della morte di Gesù. Le terribili sofferenze fisiche e gli stessi insulti e umiliazioni subite nella passione non hanno avuto la durezza e il peso di dolore e di ripugnanza che ha avuto il sì obbedienziale che Gesù ha pronunziato nell'agonia del Getsemani.

            In quella notte Gesù era irriconoscibile: cominciò a tremare di paura e, preso da tristezza mortale, cadde con la faccia a terra come un cencio. "In preda all'angoscia, pregava più intensamente; il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra". Nessuno mai potrà misurare quello che Gesù ha provato nella sua anima in quella "agonia". - Padre, passi da me questo calice! - Non era il calice delle sofferenze fisiche, non era il calice degli insulti e dei maltrattamenti, era il calice della "sconfitta", della maledizione legata al peccato. La croce era il segno che Dio aveva "abbandonato" suo Figlio alla sconfitta di fronte agli uomini. Una sconfitta senza possibilità di rivincita; sconfessato dai suoi e da tutti gli uomini, Gesù apparirà sconfessato anche da Dio. "Discendi dalla croce e ti crederemo (...) Ha confidato in Dio; lo liberi ora, se gli vuol bene, poiché ha detto sono Figlio di Dio!

            La Lettera agli Ebrei allude a quella "agonia" di obbedienza  quando scrive: "...egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lagrime a Colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà. Pur essendo Figlio, imparò l'obbedienza dalle cose che patì... "Fu esaudito..." non nel senso che gli fu risparmiata l'umiliazione e la morte, ma nel senso che fu reso capace di quella obbedienza salvifica che lo portò ad accettare la "maledizione" e la sconfitta della croce. Lo liberò infatti dall'angoscia e dalla tristezza mortale che lo aveva schiacciato nell'Orto degli olivi. Egli non si difenderà; non tornerà in piazza a convincere i suoi avversari della sua innocenza e a mostrare agli uomini la sua potenza e la sua vittoria sulla morte. Accetterà di risorgere e salire al cielo esclusivamente per la gloria del Padre, rinunciando ad ogni significato di rivincita umana davanti al mondo e anche davanti ai suoi apostoli. Fu liberato dall'angoscia e dalla morte interiore "per la sua pietà", per la sua consapevolezza di figlio di Dio che obbediva al Padre. Un angelo fu la conferma che il Padre aveva accolto la supplica straziante del suo Figlio diletto.

            Gesù uscì da quella orazione trasformato; era tornato quello di sempre: forte, sicuro di sé, padrone delle situazioni... Perciò la sua inspiegabile remissività di fronte ai suoi nemici riempì di stupore gli Apostoli che, incoraggiati perfino dalla difesa che Gesù prese per loro, lo abbandonarono e fuggirono. Gesù subirà con estrema consapevolezza e dignità l'esecuzione materiale di ciò che egli aveva accettato nel Getsemani con piena e filiale adesione alla volontà del Padre.

            La morte di Gesù ha dunque, agli occhi del mondo, le apparenze di una sconfitta, di un fallimento, ma agli occhi della nostra fede essa è stata un "sacrificio", cioè un atto di culto a Dio. Ciò significa che Gesù non è morto per circostanze fatali, sopraffatto dai suoi nemici che alla fine hanno avuto ragione di lui; non è stato un eroe di questo mondo che dopo aver lottato per la giustizia e altri nobili cause, soccombe travolto dall'astuzia e dalla perfidia degli uomini. Gesù è morto perché l'ha voluto lui; egli volontariamente si è consegnato alla morte in obbedienza al Padre. E lo ha fatto quando ha voluto lui, quando venne "la sua ora", quella segnata dal Padre. Molte volte i suoi nemici avevano tentato di catturarlo, ma egli non lo permise mostrandosi ogni volta padrone delle situazioni e degli avvenimenti. "Io offro la mia vita... Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo"

            Di più: l'atto stesso della sua morte non è stato pura conseguenza dei maltrattamenti della passione - molti hanno cercato inutilmente di spiegare la causa ultima della morte di Gesù -; Gesù stesso ha deciso il momento di dare la sua vita. Quando Gesù, dando un forte grido, esclama: "Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito" e muore non ha fatto semplicemente un atto di fiducia e di filiale abbandono nelle mani del Padre, ma ha compiuto un vero atto oblativo e sacrificale di sé stesso. In definitiva, Gesù non subisce la morte, ma offre la vita. Perciò il suo sacrificio fu l'atto supremo dell'amore, fu tutto e solo amore.

            Questa fu la pasqua sacrificale di Gesù, che egli portò a compimento sulla croce, completamente annientato, elevato da terra, nudo, sconfitto e fallito. E questo fu il prezzo della nostra salvezza, della nostra pace, della nostra felicità eterna. Nell'Eucaristia Gesù continuerà questa presenza sacrificale, e la Pasqua del cristiano sarà la partecipazione a questa Pasqua del Signore, finché egli venga.

  

N. 5     – Un personaggio tra gli altri

 Abbiamo visto qual è l'essenza della pasqua sacrificale di Gesù, pasqua di morte e di risurrezione. Vediamo ora come la liturgia "fa memoria" di tutto questo nelle celebrazioni della settimana santa. E' chiamata la "Settimana grande". In questa settimana le celebrazioni liturgiche si armonizzano con i fatti storicamente accaduti negli ultimi giorni della vita di Gesù sulla terra. Questa storicizzazione della liturgia ha portato forse ad attenuare l'intensità celebrativa della Grande Veglia pasquale, che nei primi secoli della Chiesa costituiva il momento culminante di tutto l'Anno Liturgico. In compenso ci aiuta ad entrare più facilmente nella vita di Cristo e a riviverne i momenti più significativi e umanamente più intensi. Abbiamo già ricordato altre volte quello che il Beato Escrivà ha ripetutamente insegnato, che cioè, leggendo il Vangelo, dobbiamo saper metterci negli episodi che leggiamo come un personaggio tra gli altri.

            Perciò nella domenica di Passione, detta delle Palme, ci metteremo anche noi tra i discepoli che accompagnano Gesù nel suo ingresso a Gerusalemme per acclamarlo nostro re; nei giorni successivi ci porteremo anche noi nel tempio ad ascoltare gli ultimi discorsi di Gesù e rattristarci per la durezza di cuore dei capi del popolo, suoi irriducibili avversari; parteciperemo alla tristezza di Gesù che invano cerca di dissuadere Giuda dal suo complotto con i sommi sacerdoti; e poi anche noi ci metteremo a tavola con gli apostoli nell'ultima Cena e lasceremo che il Signore ci lavi i piedi per imparare anche noi la carità fraterna; ascolteremo le intime confidenze di Gesù e lo seguiremo nell'orto degli olivi cercando i non lasciarlo solo, combatteremo il sonno e la stanchezza della nostra anima; anche noi, con gli apostoli rifugiatisi nel Cenacolo, aspetteremo le notizie che di tanto in tanto arrivano sul precipitare degli eventi: il racconto di Pietro in lagrime per non aver saputo testimoniare il suo maestro, i discepoli che ci aggiornano sui processi sommari e ridicoli contro Gesù, e magari anche noi ci mescoleremo alla gente e assisteremo impotenti e in lagrime agli insulti e ai maltrattamenti contro il Signore, sentiremo le grida della folla che chiedeva Barabba, e infine, dietro un'angolo della strada, aspetteremo il passaggio di Gesù con il suo pesante legno sulle spalle, stremato, irriconoscibile sotto una crudele maschera di sputi, di polvere e di sangue, e se ci sorregge un po' di audacia seguiremo Giovanni, le donne e soprattutto la Vergine Santa per arrivare anche noi sul Calvario, e lì, immersi nello stupore di tutto il creato che si oscura di tristezza davanti al suo Creatore crocifisso, raccoglieremo le ultime parole di dolore, di amore e di misericordia che usciranno dal petto di Gesù: le parole rivolte al ladrone, quelle rivolte alla Madre che, lì sotto la croce, sostiene tutti noi con la sua fede e con la sua fortezza, e soprattutto le forti grida d'invocazione e di supplica al Padre che nei cieli accoglie il supremo sacrificio del suo Figlio diletto: “Padre!.. Tutto è compiuto!. perdona a loro perché non sanno quello che fanno ... Nelle tue mani consegno il mio spirito!".

            Poi aspetteremo che la folla se ne vada, raccoglieremo le ultime gocce di sangue che sgorgheranno dal suo fianco trafitto e insieme a Giuseppe D'Arimatea e a Nicodemo caleremo dalla croce quel corpo disfatto per consegnarlo all'abbraccio dolente e tenerissimo di Maria; con le donne lo puliremo dalla sporcizia, dai grumi di sangue, dalle croste di sudore, e baceremo quelle ferite con dolore d'amore spalmandole poi di aloe e di mirra, ricoprendole con la sindone nuova, pulita e odorosa, e avvolgendolo con le bende e con le fasce...; e dopo tanta fatica e tanto dolore lo affideremo al riposo di un sepolcro nuovo in attesa - noi ora lo sappiamo bene! - del suo risveglio nella gloria.

 

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NOTA. Prima di addentrarci nel capitolo dedicato alla domenica del “Trionfo delle Palme” riportiamo due capitoli che l’autore ha voluto dedicare al significato e alla distinzione della festa della Pasqua: quella ebraica e quella cristiana.  In tal modo ci dovrebbe essere più facile anche la comprensione del significato penitenziale che la Chiesa cattolica ha inteso dare al periodo della Quaresima, detto anche “periodo forte”, cioè di maggior impegno spirituale di purificazione personale e comunitaria.

  

N. 6 – La Pasqua ebraica

 La Pasqua è il culmine della Storia della salvezza; è perciò il cuore di tutto l'anno liturgico. Riguardo a Cristo, la Pasqua è il completamento della sua Incarnazione; è la realizzazione estrema della sua "spoliazione" - "annientamento" la chiama S. Paolo - avendo accettato di assumere la nostra umanità fino alla sua condizione di condanna e di morte. "Cristo Gesù, pur essendo di natura divina (Figlio di Dio), non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò sé stesso assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini (Incarnazione); apparso in forma umana (Natale), umiliò sé stesso (Passione), facendosi obbediente fino alla morte (agonia) e alla morte di croce (Morte). Per questo Dio l'ha esaltato (Risurrezione) e gli ha dato un nome che è al di sopra di ogni altro nome (Redentore universale e Capo della Chiesa), l'ha costituito Signore (Re e giudice) a gloria di Dio Padre (Ascensione). Questo inno di S. Paolo abbraccia tutto il Mistero di Cristo e ricapitola l'opera sublime della salvezza.

            Quanto a noi, la Pasqua è "transitus Domini", il passaggio del Signore; come Gesù, e insieme con lui, anche noi passiamo dalla morte alla vita. Cristo ci libera dalla condizione di schiavi e ci fa passare alla libertà di figli. Questo "passaggio" dalla schiavitù alla libertà, dal peccato alla grazia, è stato prefigurato da ciò che Dio aveva compiuto nell'Antico Testamento per i figli di Israele quando "passò" per liberarli dall'Egitto, come narra il libro dell'Esodo. Fu la Pasqua ebraica che possiamo considerare come "Epopea della Salvezza".

            Quella sera gli Ebrei sacrificarono l'agnello e con il sangue segnarono le porte delle loro case. Nella notte "passò" il Signore e fece giustizia sui primogeniti dell'Egitto risparmiando le case degli Israeliti. Essi poterono così partire e, guidati da Mosè, passarono il Mar Rosso per incamminarsi verso la Terra promessa. Quel rito doveva ripetersi ogni anno al plenilunio di primavera, di generazione in generazione. "Allora i vostri figli vi chiederanno: Che significa questo atto di culto? Voi direte loro: E' il sacrificio della Pasqua per il Signore, il quale è "passato oltre" le case degli Israeliti in Egitto, quando colpì l'Egitto e salvò le nostre case".

            La Pasqua ebraica aveva valore di segno, era una figura profetica della Pasqua di Cristo: Gesù è il vero agnello che toglie i peccati del mondo, la sua immolazione è il vero Sacrificio che libera gli uomini dalla schiavitù del peccato, il suo Sangue ha sancito la nuova Alleanza che sostituirà per sempre l'antica Alleanza sancita dal sangue dell'agnello. In Gesù, morto e risorto, Dio realizza tutte le sue promesse e dà compimento alla salvezza del mondo.

            Dicevamo che ogni cristiano è chiamato a morire e a risorgere con Cristo per essere, in Lui, una "creatura nuova". La Pasqua di Cristo diventa così la Pasqua dei cristiani. Tutto si compie nella Chiesa per opera dello Spirito Santo che attua in ogni credente il mistero pasquale di Cristo. Proprio nella Liturgia pasquale la Chiesa unisce nella celebrazione liturgica la Pasqua di Cristo e la Pasqua dei cristiani.

  

N. 7 – La Pasqua cristiana

 Il tempo pasquale è chiamato dalla Chiesa "tempo forte", forte perché fondamentali sono le verità che vengono ricordate, ma forte anche per i temi della vita cristiana che vengono riproposti. Il cristiano è colui che nasce dalla Pasqua di Cristo; è colui che rivive il mistero di morte e risurrezione del Signore.

            Gli Ebrei celebravano la Pasqua come un rito "per non dimenticare", un memoriale che ricordava quello che Javhè aveva compiuto con i loro padri. Era quindi un rito di lode e di ringraziamento al Dio d'Israele per i grandi benefici che egli aveva concesso al suo popolo.

            La Pasqua di Cristo non fu un rito ma un "mistero", cioè un reale intervento di Dio nell'umanità di Cristo. Dio volle rinnovare tutta l'umanità e l'intera creazione secondo il suo disegno di salvezza attraverso l'offerta sacrificale di suo Figlio fatto uomo. La Pasqua di Cristo ha dunque un valore ben diverso dalla Pasqua ebraica, non solo perché questa era la "figura" e Cristo è la "realtà", ma anche perché Cristo, nella sua Pasqua, unisce intimamente l'aspetto salvifico all'aspetto sacrificale: Cristo è Redentore e insieme Sacerdote eterno. La Pasqua dell'Esodo, infatti, rivestiva soprattutto un significato salvifico: l'agnello pasquale serviva per segnare col sangue le porte degli Ebrei e così salvare il popolo dal giogo del Faraone e i primogeniti dallo sterminio; la Pasqua di Cristo riunisce in sé i due aspetti, quello salvifico e quello sacrificale: proprio perché fu un sacrificio di adorazione al Padre, la Pasqua di Cristo ebbe un valore salvifico per tutta l'umanità.

            Anche nella Pasqua cristiana ritroviamo tutti e due gli aspetti: la Pasqua cristiana è rito ed è mistero; è rito perché richiama i segni salvifici della Pasqua ebraica, ed è mistero perché contiene la realtà del Sacrificio di Cristo. La Chiesa perciò chiama la Pasqua cristiana: Sacramenta paschalia: i Sacramenti pasquali. I Sacramenti che hanno significato pasquale sono il Battesimo e l'Eucaristia. Il Battesimo ci ricorda e attua in noi l'aspetto salvifico della Pasqua, aspetto prefigurato nella liberazione degli Ebrei dall'Egitto attraverso le acque del Mar Rosso; l'Eucaristia ci ricorda e attua in noi il sacrificio di Cristo nella sua Pasqua di morte e resurrezione. Tutta la Liturgia pasquale è insieme Liturgia battesimale e Liturgia eucaristica. Gesù stesso chiama la sua morte un "Battesimo".

            Nel richiamare queste realtà è necessario da parte nostra uno sforzo di riflessione. C'è il pericolo infatti che noi ascoltiamo queste cose e le sentiamo come lontane nel tempo ed estranee alla nostra situazione attuale, alla nostra realtà quotidiana. Queste sono certamente cose di Dio - pensiamo - e deve farle lui, noi abbiamo le nostre cose - il lavoro e i suoi problemi, la famiglia e le sue necessità, la società e le sue vicende... - e dobbiamo pensarci noi. Abbiamo già detto che la Storia di Dio (storia sacra) e la storia dell'uomo non sono due storie parallele; Dio agisce dentro la storia dell'uomo e il tempo della salvezza è presente in ogni momento della nostra vita. Parlando della fede come strada che conduce la nostra esistenza terrena, dicevamo che la fede è "vedere" presente nella mia vita il Dio-che-salva. Dobbiamo chiedere alla Madonna che "portava tutte queste cose meditandole nel suo cuore", di sentirci anche noi "interessati a quanto Dio ha fatto e continua a fare nel mondo. La vita del cristiano è una vita pasquale, è la vita di Cristo morto e risorto che in qualche modo continua in noi.

 

 N. 8 – Il “trionfo” delle Palme

 Possiamo rivivere tutto questo nel silenzio e nel raccoglimento della nostra anima mentre partecipiamo ai riti liturgici della Settimana Santa, soprattutto la liturgia del Triduo pasquale culminante nella grande Veglia della notte di Pasqua.

La settimana comincia nel segno del trionfo e della gloria; Gesù entra nella città santa accompagnato da manifestazioni messianiche: Osanna al Figlio di David! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Gesù stesso organizza il suo corteo trionfale, e c'è in tutti la convinzione che il regno messianico è ormai inaugurato. La folla che accompagnava Gesù deve essere stata abbastanza numerosa per la presenza di molti pellegrini che dalla Galilea salivano a Gerusalemme per la Pasqua, e formata soprattutto dai suoi discepoli; anche le manifestazioni avevano assunto un significato spiccatamente messianico con aspetti anche trionfalistici.

            In questa domenica la liturgia si veste di rosso, il colore della regalità, ma anche il colore della passione e del martirio; i due aspetti si richiamano perché dietro il trionfo c'è la passione e soprattutto perché Cristo regnerà dalla croce. La celebrazione liturgica coglie quindi il mistero che è presente dentro ogni episodio della vita di Cristo e lo celebra nella solennità del rito. Noi partecipiamo alla celebrazione cercando con l'aiuto della fede di entrare intimamente nel mistero di Cristo; ma ci sono due particolari nella vicenda di questa giornata che meritano di essere meditati, particolari che appaiono nel Vangelo e dei quali uno solo è ricordato dalla liturgia: l'asinello come uno dei protagonisti del corteo di Gesù e il pianto del Signore su Gerusalemme.

            Presso gli Ebrei ed altri popoli dell'antichità, l'asinello era la nobile cavalcatura dei re e dei dignitari, e voleva indicare, a differenza del cavallo che significava guerra e prepotenza, la mansuetudine e la pace; tale lo proclamò il Profeta Zaccaria e Gesù col suo gesto volle dire esplicitamente che egli veniva, come re di pace, a dare compimento a quella profezia messianica.

            L'asinello arrivò così a suscitare l'invidia di molti santi. Portare Cristo nel suo trionfo, portare Cristo nel mondo, fu il sogno e l'umile ambizione di molte anime grandi. Scrive S. Ambrogio: "Dall'animale mansueto di Dio, impara a portare Cristo (...) impara ad offrirgli con gioia la groppa; impara a stare sotto Cristo, perché tu possa stare al di sopra del mondo!". Ma colui che più di ogni altro ci ha lasciato una visione lirico-ascetica dell'asinello è stato san Josemaria Escrivà. Ecco uno dei suoi numerosi passi proprio a commento dell'ingresso di Gesù a Gerusalemme: "Gesù accetta di avere per trono un povero animale. Non so se capita anche a voi, ma io non mi sento umiliato nel riconoscermi dinanzi al Signore come un somarello:" Sono come un somarello di fronte a te , ma sono sempre con te, perché tu mi hai preso con la tua destra", tu mi conduci per la cavezza.

            “Pensate un po' alle caratteristiche di un somaro, ora che ne restano così pochi. Non pensate all'animale vecchio e cocciuto che sfoga i suoi rancori tirando calci a tradimento, ma l'asinello giovane, dalle orecchie tese come antenne, austero nel cibo, tenace nel lavoro, che trotta lieto e sicuro. Vi sono centinaia di animali più belli, più abili, più crudeli. Ma Cristo, per presentarsi come re al popolo che lo acclamava, ha scelto lui. Perché Gesù non sa che farsene dell'astuzia calcolatrice, della crudeltà dei cuori aridi, della bellezza appariscente ma vuota”.

  

N. 9 – Il pianto di Gesù

 L'altro particolare che i Vangeli riportano non ricordato dalla Liturgia è il pianto di Gesù sulla sua città. E' un pianto che ci lascia profondamente turbati; non tanto perché avviene nel momento culminante del suo trionfo, ma soprattutto per il suo significato e per il motivo che l'ha provocato. Arrivato alla sommità del Monte degli Olivi, il corteo si accingeva a scendere su Gerusalemme attraverso la valle del Cedron. Da quel punto, la Città santa si presentava in tutta la sua bellezza. I tetti dorati del tempio risplendevano al sole del primo mattino in una primavera già piena di splendore, le sottostrutture alla spianata del Tempio presentavano tutta la loro imponenza e la loro forza, la città era un incanto, era lì come da secoli l'avevano sognata i profeti: una "visione di pace" - beata pacis visio - destinata ad essere la città-dimora di Dio, la "Sposa di Jawè", la madre di tutte le nazioni, a lei sarebbero venuti tutti i popoli della terra perché in lei Dio avrebbe compiuto le sue meraviglie e avrebbe fatto risplendere la sua gloria.

            Invece, la città santa ha mancato alla sua vocazione, la città eletta e amata da Dio non ha corrisposto al suo amore, non ha conosciuto il tempo della visita del suo Dio; essa, "Città della pace" non ha compreso la via della pace. Perciò sarà preda dei suoi nemici che abbatteranno lei e i suoi figli dentro di lei non lasciando del suo splendore pietra su pietra.

            Il pianto di Gesù, pianto che avrà lasciato sorpresi e disorientati i discepoli, non fu soltanto dolore per la fine della città eletta che ogni buon israelita amava immensamente, fu anche tristezza profonda, e continua ad essere cocente delusione per ogni anima che manca agli appuntamenti con Dio, agli appuntamenti con la propria vocazione e ai propri compiti, per ogni anima che, pur sapendo di quale amore Dio l'ha amata, non ha saputo accogliere l'Amore.

            Forse pensiamo che il pianto di Gesù possa essere stato simbolico. Ad un uomo forte, consapevole della propria dignità, padrone assoluto dei propri sentimenti e signore di ogni situazione, non si addice il pianto. Cristo, invece, ha pianto; ha pianto perché era profondamente umano e l'intensità dei suoi sentimenti era pari alla perfezione della sua personalità. Gesù ha pianto perché vero uomo; il pianto fa parte della condizione umana. Senza il peccato l'uomo avrebbe pianto di gioia e di felicità conoscendo l'amore di Dio; col peccato l'uomo piange di tristezza e di dolore conoscendo la debolezza e la morte. Gesù ha pianto di dolore e d'amore, ha pianto per l'uomo, ha pianto per ciascuno di noi, per quando non abbiamo saputo riconoscere il tempo della sua visita, e non abbiamo saputo comprendere la via della pace.

            Le lagrime sono una prerogativa dell'uomo e sono un dono di Dio. La liturgia conosce una preghiera per chiedere il dono delle lagrime, lagrime che siano di dolore e di amore e riscattino il pianto di Gesù. Un uomo che non sa piangere non conosce il dolore e non conosce l'amore; certamente non ha sperimentato la gioia di essere uomo. Soprattutto non ha conosciuto la felicità di sapersi figlio di Dio.

 

 N. 10  – La Risurrezione: fondamento della fede

 La liturgia del triduo pasquale celebra il mistero di Cristo morto-sepolto-risorto, mistero che si manifesta negli avvenimenti dolorosi e tristi che tutti conosciamo e che abbiamo già ricordato. Ora, quegli avvenimenti si aprono sul "trionfo" della risurrezione, sulla "vittoria" della pasqua. La Pasqua diventa così il culmine di tutto l'anno liturgico, il culmine della vita della Chiesa; ciò che si è compiuto in quel giorno ha rinnovato ogni cosa, ha siglato il trionfo della potenza e della misericordia di Dio, e insieme ha ricuperato il valore e il significato del tempo e della storia umana.

            Noi, uomini del terzo millennio, facciamo fatica a capire queste cose, ad entrare con convinzione in questo Mistero. Abbiamo l'impressione che tutto questo sia enfasi, retorica, un genere letterario che non ha consistenza pratica nella realtà della vita. L'uomo della civiltà tecnica e consumista, che cos'ha in comune con la Risurrezione di Cristo? Per risolvere i problemi dell'uomo che importanza può avere un Giudeo che duemila anni fa è risorto?

            Sono crollate le strutture sociali e politiche delle ideologie, ma i loro principi e le loro categorie intellettuali sono rimaste profondamente radicate nel modo di pensare oggi dominante. I principi sono riassunti fondamentalmente nell'affermazione che le cose di questo mondo non hanno un loro rapporto con Dio: è il principio dell'immanenza. Ne deriva la chiusura di ciò che è terreno e umano a ciò che è divino e soprannaturale, la presunta incompatibilità o estraneità del tempo con l'eternità. Perciò la Risurrezione di Cristo è un fatto che non ci riguarda, o non ci interessa ai fini di risolvere i problemi dell'uomo, problemi che sono esclusivamente terreni: economici, sociali, problemi di qualità della vita.

            Come possiamo noi cristiani capire e far capire agli altri che le verità della nostra fede sono fondamentali per la vita dell'uomo? Come liberarci dalle strettoie anguste e asfissianti di una cultura laica così povera e debole che non riesce ad andare oltre ciò che è contingente, puramente storico, ciò che è addirittura provvisorio o effimero nella vita umana e nella storia dell'umanità? E’ necessario rompere il muro dell'immanente per aprirsi all’orizzonte sconfinato della realtà di Dio e della sua presenza nella vita e nel destino degli uomini.

Noi cristiani abbiamo ricevuto il dono inestimabile della fede per cui "non fissiamo lo sguardo (soltanto) sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne". Camminare nella vita senza la fede è una grande sventura e rischia di essere una disgrazia irreparabile. Se il nostro Vangelo rimane velato, lo è per coloro che si perdono, ai quali il dio di questo mondo ha accecato la mente incredula, perché non vedano lo splendore del glorioso Vangelo di Cristo".

 Ora il Vangelo che ci è stato annunciato è che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa (Pietro) e quindi ai dodici. Perciò se Cristo non fosse risorto vana sarebbe la nostra fede e noi saremo ancora nei nostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo, sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini. Cristo risorto è il dato fondamentale della nostra fede ed è l'evento determinante per la salvezza e per il destino dell'umanità.

            Era necessario richiamare l'importanza e la necessità della fede riguardo alla Risurrezione di Gesù, sia come fatto che come mistero, perché ogni discorso sul cristianesimo resterebbe marginale e in certo senso anche retorico se non partisse da questo presupposto, che è stato fin dall'inizio il fondamento della predicazione degli apostoli e come la piattaforma di tutto l'edificio della Chiesa.

            Gesù Risorto è il sigillo a tutte le opere di Dio, è la conferma di tutto ciò che nell'uomo è rimasto integro, retto e nobile per sapienza e per virtù ed è la risposta definitiva di Dio sul nostro destino.

 

 N. 11 – Capire la Risurrezione

 La solenne Liturgia pasquale inizia con la grande Veglia del Sabato Santo Essa si presenta con la fisionomia di una "notte illuminata" dai bagliori delle opere di Dio, ricordate nelle Letture, fino all'esplosione di luce di Cristo risorto e culmina nella gioia incontenibile del giorno di Pasqua. Non è questa la sede per esporre e assaporare la bellezza dei riti liturgici del Triduo pasquale, da quello del giovedì santo a quello suggestivo della Veglia. Ciascuno la scoprirà direttamente in quei giorni nella partecipazione alla Liturgia.

            Del significato battesimale della Pasqua già ne abbiamo parlato. Ci sono, però, due riflessioni sul grande mistero di Cristo risorto che possono avere un notevole impatto sulla nostra fede e sulla nostra vita cristiana. La prima riflessione riguarda la natura della risurrezione di Cristo. Nella Bibbia e soprattutto nel Vangelo si ricordano vari episodi di morti che vengono risuscitati dalla potenza di Dio. Il più famoso è quello di Lazzaro che viene chiamato fuori dal sepolcro dopo quattro giorni di sepoltura. In tutti questi miracoli, le persone risuscitate vengono richiamate in vita; si tratta cioè di un ritorno alla condizione di prima, alla vita presente. Le stesse espressioni usate dal Signore lo fanno capire: quel "Lazzaro, vieni fuori!" è come un imperativo divino a tornare indietro, a tornare a vivere la vita terrena. E quando a Naim richiama in vita il figlio della vedova, e a Cafarnao risuscita la figlia di Giairo, Gesù comanda di alzarsi - alzati! - rimettiti in piedi, riprendi la vita che hai lasciato. "E lo diede a sua madre", lo restituì alla vita. Si tratta dunque della vita attuale, passibile, mortale, ancora soggetta ai limiti e alla precarietà della condizione terrena. Non c'è una vera "novità" nella risurrezione dei risuscitati.

            La Risurrezione di Cristo è invece una "novità" assoluta. La vita di Cristo risorto è una vita nuova, è appunto partecipazione alla vita eterna. Il corpo di Gesù è un vero corpo, ed è "di Gesù", ma in una condizione del tutto nuova, completamente diversa. E' un corpo non più soggetto alle leggi attuali, alla gravitazione, alla impenetrabilità, alle necessità fisiologiche, alla fatica, al ciclo biologico, alla morte: il tempo non conta più, si è come fermato. E soprattutto il corpo partecipa alla beatitudine e allo splendore dell'anima. Perché mai gli Apostoli di fronte a Cristo risorto sono stati presi da stupore e spavento come di fronte a un fantasma, mentre non si sono per niente allarmati davanti a Lazzaro e agli altri risuscitati da Gesù? E' che Gesù risorto era, sì, con i segni evidenti della sua passione, ma non era il Gesù "pesante" di prima; era un Gesù "leggero", etereo, con un vero corpo ma spiritualizzato.

            La risurrezione di Gesù è stata una "pasqua", un passaggio. Il passaggio dalla morte alla Vita, dalla condizione terrena, mortale, perciò precaria e provvisoria, segnata dal peccato, alla condizione celeste, definitiva ed eterna, segnata dalla beatitudine e dalla gloria. E' un cambiamento inimmaginabile, Gesù lo definisce un "entrare nella gloria" cioè nella condizione propria di Dio. E' paragonabile a una nuova creazione. Gesù infatti precisa che per entrare nella gloria "bisognava che Cristo sopportasse queste sofferenze", proprio perché esse erano legate alla "maledizione" del peccato. La risurrezione, quindi, non ha il significato di un portento spettacolare atto a dimostrare che Gesù è veramente figlio di Dio e Messia - per questo sarebbe dovuto andare nel tempio, farsi vedere ai suoi uccisori e manifestarsi al popolo - ha invece il significato di un intervento divino per dirci che è stata tolta per sempre la maledizione del peccato e l'uomo ha così accesso alla gloria.

            In altre parole, la risurrezione di Gesù non è una vittoria "mondana", una rivincita di fronte al mondo, ma una "vittoria di Dio" un gesto della sua misericordia e del suo infinito amore di Padre che, attraverso l'umiliazione e la morte del suo Figlio unigenito ha voluto riconciliare a sé tutte le cose, tutti gli uomini. Capire questo è fondamentale per la fede e per la nostra vita cristiana

 

 N. 12 – Cristo è vivo!

 La seconda riflessione è una conseguenza della prima: Cristo è dunque risorto, perciò Cristo è vivo! Gesù non è più un personaggio del passato; egli è ormai vivo per sempre ed è contemporaneo di ogni uomo in ogni tempo. "Perché cercate tra i morti colui che è vivo?" - "Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui. "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo".

            Fare propria questa convinzione è indispensabile per la nostra vita interiore . Il nostro rapporto personale con Gesù non avrà bisogno di uno sforzo psicologico per richiamare un personaggio del passato, non esigerà mediazioni della fantasia o della memoria; Gesù è vivo adesso e possiamo incontrarlo adesso: possiamo ascoltarlo, parlargli, unirci intimamente a Lui nell'Eucaristia. Proviamo a pensare alle donne che si recarono al sepolcro in quel mattino di pasqua. La semplicità e l'immediatezza della loro fede: la pietra ribaltata, il sepolcro vuoto, e soprattutto gli angeli che le rassicuravano e affermavano con tutta chiarezza che Gesù era risorto e "...lo vedrete". Tutto questo è bastato per la loro fede e la loro certezza. Ma soprattutto era quel "lo vedrete" che le ha riempite di gioia: "Abbandonato in fretta il sepolcro, con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l'annuncio ai suoi discepoli".

            A quelle donne non importava molto dei "se" o dei "come", non si diedero a grandi e complicati ragionamenti; quello che per loro aveva importanza era che Gesù era vivo, lo potevano ancora vedere, ascoltare, servire, prendersi cura di lui. E quando effettivamente lo videro e gli abbracciarono i piedi, la loro gioia non ebbe limiti, tutti gli altri problemi non esistevano più, o non erano più problemi; la stessa incredulità e lo scetticismo degli apostoli erano sì motivo di amarezza e di afflizione ma non impedivano minimamente la loro gioia immensa perché Gesù era ancora con loro.

            Quando si ama, si desidera incontrare la persona amata e si è felici della sua presenza. Le donne del Vangelo si renderanno poi conto che la presenza visibile di Gesù era limitata a pochi giorni e ci vorrà anche per loro, come per gli Apostoli, la luce dello Spirito Santo per comprendere pienamente ciò che era accaduto, ma ormai il dato fondamentale era indubitabile: Gesù era vivo ed era lì, presente in mezzo a loro.

            Anche ora Gesù è presente sulla terra, ma in modo non visibile, e questo trae in inganno gli uomini. In un certo senso, Gesù continua a comportarsi analogamente a come si è comportato nella sua vita e nella sua passione. Non ha mai ceduto alle provocazioni umane, non è andato in piazza a dimostrare con gesti strepitosi la sua messianicità, non è sceso dalla croce per far vedere che era figlio di Dio e, risorto, non si è preso rivincite "mondane". Egli continua ora la sua presenza nella Chiesa - nell'Eucaristia, nei Sacramenti, nel suo Vangelo - una presenza invisibile e umanamente perdente: lo si può infatti insultare, deridere, profanare, si può rifiutare il suo Vangelo, crocifiggere i suoi discepoli, emarginarlo dalla vita dei popoli, proclamare che il mondo non ha bisogno di lui, anzi, che proprio il mondo ci dà quello che lui non può darci: la gloria, i piaceri, il successo, il potere...; e tuttavia ci sono milioni di persone che lo amano, che per lui si convertono dai loro peccati, lo seguono, disposti a fare per lui qualsiasi cosa...; il suo Vangelo continua ad illuminare gli uomini, i suoi Sacramenti continuano a santificare le anime, il suo Spirito a fecondare la terra. La sua presenza di Figlio di Dio, morto e risorto, continua ad essere presenza di salvezza e la Chiesa continua a presentarlo al mondo intero come vittima pasquale presente in mezzo a noi: "Ecco l'Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo!"

            Gesù è vivo, posso incontrarlo, frequentarlo, ascoltarlo, amarlo; posso seguirlo da vicino, posso servirlo a tempo pieno, posso dargli ogni cosa e tutto me stesso. Posso farlo vivere in me così da renderlo presente in ogni luogo dove passo, dove lavoro, dove vivo. Posso farlo conoscere a quanti mi incontrano e mi chiedono ragione della mia gioia e della mia speranza.

 

                                                                       Ferdinando Rancan

                                                                       Da “La moneta del tempo”.

                                                           Fine dei capitoli dedicati ai Quaresimali