I
QUARESIMALI
Riflessioni
su “Il tempo pasquale e la Quaresima”
di Ferdinando Rancan
Brani dal libro “La moneta del tempo”
Introduzione
In
questo periodo dell’Anno Liturgico che precede la Pasqua, definito “Quaresima”,
la Chiesa ha sempre consigliato ai vari sacerdoti, parroci o religiosi, di
preparare i fedeli attraverso predicazioni sul mistero della Passione di Gesù
Cristo completate da preghiere e benedizioni, dette appunto “quaresimali” della
durata di 40 giorni prima della festa della Santa Pasqua.
Il numero “quaranta” ricorre spesso
nella Sacra Scrittura: per 40 giorni Gesù rimase nel deserto a pregare in vista
della sua passione; 40 giorni furono i giorni di durata del diluvio universale;
40 giorni fu il periodo in cui Mosè rimase in preghiera sul monte Sinai; il
profeta Elia percorse il deserto per 40 giorni; l’esodo degli ebrei dall’Egitto
alla terra promessa durò circa 40 anno ecc. ecc.
Abbiamo pensato con l’occasione, di
offrire ai nostri amici la lettura di alcuni scritti su questo argomento, di
don Ferdinando Rancan, sacerdote diocesano in concetto di santità, che molti di
voi hanno già conosciuto e apprezzato, anche se mai conosciuto in vita.
I brani che seguono sono stati copiati dal
libro “La moneta del tempo” un calendario per l’anima, nel quale l’autore
presenta e approfondisce il significato dell’anno liturgico che inizia col
periodo di “Avvento” in preparazione al Natale, prosegue con le varie festività
Liturgiche come la Pasqua, la Pentecoste, la Santissima Trinità, il Corpus
Domini… e termina con la solennità di tutti i Santi e la festa di Cristo Re
dell’Universo, ma si sofferma anche nel descrivere il significato di ogni
giorno della settimana, in particolare della Domenica, con le varie devozioni
ad essi attribuite e il loro collegamento con la Sacra Scrittura.
I Santi sono d’accordo nell’affermare
l’importanza che ha una buona lettura spirituale fatta quotidianamente, magari
solo per 10/15 minuti, però con costanza, soprattutto del Vangelo, perché si
rischia altrimenti di rimanere con una formazione da bambini della Prima
Comunione (ammesso che sia stata fatta bene anche questa preparazione coi tempi
che corrono!), e poi si pretende di dare un giudizio su tutto ciò che accade
nella Chiesa, anche dal punto di vista spirituale e teologico!! quando alla
base della nostra formazione c’è spesso lo zero assoluto o l’ignoranza più
evidente quando non anche la malafede nel giudicare fatti e persone che magari
non spiccano per la loro santità. E’ come pretendere di spiegare le leggi della
fisica quantistica con il diploma di terza media, eppure tutti o quasi si
ritengono in grado di salire in cattedra e spiegare il perché della vita e
della morte, del peccato e della redenzione, ecc. ecc.
Anche questo libro, come quasi tutti quelli di
don Rancan, è chiaro, profondo ma anche semplice nella sua esposizione e ha il
privilegio di riempire il cuore di gioia mano a mano che lo si legge perché
come dice Gesù, “La Verità ci fa liberi” e la libertà rende felici.
Reperibile presso la Casa Editrice “Fede e
Cultura” di Verona che lo invia a domicilio (tel. 045/941851). Auguriamo a tutti buona lettura che ci
permetta di conoscere non tanto una dottrina più o meno impegnativa, per quanto
avvincente e affascinante, ma una figura umana-divina che ci ama personalmente,
che ha dato la vita per ognuno di noi, che continuerebbe a darla nel modo più
cruento per salvarci dal fuoco eterno dell’inferno, e questa figura
meravigliosa si chiama GESU’ CRISTO. Se
non lo conosciamo, neppure possiamo seguire la sua dottrina e pertanto non
possiamo dirci cristiani. Fare l’esperienza personale di Gesù come Uomo-Dio e
di quanto ci ama, è stato spesso motivo della conversione dei più grandi
Santi. Buona lettura e buona Quaresima.
IL TEMPO PASQUALE
N. 1
– Il mercoledì delle Ceneri
Il tempo pasquale comprende tre momenti
liturgici di grande intensità: la
Quaresima, la Pasqua, la Pentecoste.
La Quaresima ci chiama alla conversione e
alla lotta contro tutto ciò che nella nostra vita si oppone a Dio; la Pasqua celebra la passione, morte,
risurrezione del Figlio di Dio fatto uomo, il quale ci ha amati e ha dato sé
stesso per noi; la Pentecoste ci
comunica i frutti della Pasqua, cioè lo Spirito Santo e la Chiesa. E' un
periodo di quattordici settimane, e risulta dalla dilatazione progressiva della
Veglia pasquale che veniva celebrata con grande solennità nelle prime comunità
cristiane.
La Quaresima inizia nel Mercoledì delle Ceneri con un austero
rito penitenziale. Le ceneri, ottenute per incenerimento dei ramoscelli
d'olivo, hanno avuto fin dall'antichità un significato penitenziale.
"Sedere nella cenere" significava riconoscere la propria povertà e la
propria nullità. La Chiesa utilizza questo significato imponendoci le ceneri
sul capo per aiutarci ad abbandonare ogni nostra superbia. Si sa, la superbia è
la radice di ogni peccato e perciò è il più radicato dei vizi umani. Si dice
che la superbia muore un giorno dopo la nostra sepoltura ed è così connaturata
al nostro animo da non poterla riconoscere e smascherare senza l'aiuto della
grazia di Dio.
Inoltre, ce ne dimentichiamo così
facilmente che la Chiesa nel rito delle Ceneri quasi ci invita a metterci davanti
alla nostra tomba dicendoci: "Ricordati che sei cenere, e in cenere
ritornerai!". La Chiesa nel ricordarci la poca cosa che siamo non intende
scoraggiarci nei nostri progetti di bene o nei nostri sforzi nobili e
coraggiosi di impegno in questo mondo come se proclamasse l'inutilità di tutto
ciò che facciamo, vuole semplicemente invitarci a deporre ogni superbia, ogni
considerazione falsa e disordinata di noi stessi, ogni appropriazione ingiusta
dei doni di Dio come se fossero merito nostro di cui gloriarci davanti agli
uomini.
La superbia non solo ci impedisce di
riconoscere Dio e quindi di orientare verso di Lui la nostra vita
(conversione), ma ci impedisce anche di riconoscere i nostri peccati e quindi
di pentircene e di emendarli con la penitenza. La superbia è il vero nemico dell'anima ed è l'unico peccato che ci fa
somiglianti a Lucifero. Perciò la Chiesa imponendoci le Ceneri ci invita
all'umiltà e ci addita il cammino penitenziale della Quaresima, che si può
riassumere nelle tre indicazioni che Gesù stesso ci ha dato: preghiera, elemosina e digiuno.
La preghiera è l'aprirsi dell'anima
a Dio: è la conversione, l'inizio della fede; l'elemosina è il dischiudersi del
cuore verso il prossimo: è la misericordia con le sue opere, segno certo della
contrizione del cuore, “l'elemosina - infatti - copre la moltitudine dei
peccati"; il digiuno è il dischiudersi del corpo e dei nostri sensi alla
riparazione: è la penitenza. In tutto
questo occorre la sincerità interiore. Proprio nel giorno delle Ceneri, parlandoci
della preghiera, del digiuno e dell'elemosina, il Signore nel Vangelo ci mette
in guardia dall'ipocrisia. Gesù parla dell'ipocrisia di fronte agli uomini,
ipocrisia che ci porta ad agire tenendo conto del giudizio e del plauso umano,
ma essa nasce dall'ipocrisia interiore, quella che ci porta alla penitenza,
alla preghiera e alle opere buone ma senza una vera umiltà, senza una lotta
sincera contro tutto ciò che ci allontana da Dio, e senza il fermo proposito di
usare i mezzi idonei per una vera conversione.
Presentandoci Gesù lottatore contro il maligno,
la Liturgia ci invita ad una più rigorosa austerità nella vita, ad essere più
forti nel respingere il male e più decisi nel volere il bene. La società del
benessere e del facile consumismo in cui viviamo, ci ha resi tutti più fragili,
più deboli, più restii al sacrificio e all'impegno. All'inizio della Quaresima
ci viene estremamente opportuno ricordare l'avvertimento di Gesù: il Regno dei
Cieli esige "violenza" e solo i violenti lo possono conquistare.
N. 2- –
L’itinerario quaresimale
La Quaresima assunse così il significato di un
cammino verso la Pasqua
con riferimento soprattutto al Battesimo. Particolari esercizi penitenziali
erano previsti per due categorie di persone: i catecumeni e i penitenti. La Quaresima dei catecumeni
era pre-battesimale e aveva lo scopo di preparare al battesimo i convertiti
attraverso un'assidua catechesi sulle verità della fede cristiana e una
purificazione della condotta che garantisse il cambiamento di vita dalle
abitudini pagane.
La Quaresima dei penitenti
era post-battesimale ed era ordinata alla riconciliazione dei pubblici
peccatori che, allontanati dalla comunità per la loro condotta, venivano
sottoposti a pubblica penitenza, in "cenere e cilicio", prima di
essere ammessi a partecipare all'Eucarestia; la riconciliazione avveniva
appunto nel giovedì santo.
Per noi oggi la Quaresima potrebbe
rivestire spiritualmente ambedue i significati: catecumenale e penitenziale.
Noi abbiamo già ricevuto il battesimo, ma la ricchezza di questo sacramento è
tale da non essere mai esaurita; tutta la vita cristiana è vita battesimale e
si configura come un progressivo sviluppo della grazia e della vita divina
ricevute nel battesimo. Inoltre, il battesimo è anche il sacramento della fede,
e la fede è suscitata in noi dalla Parola di Dio. Ora, la Parola di Dio richiede un
continuo ascolto interiore senza il quale la fede battesimale rimarrebbe come
un seme inaridito e infecondo. La stessa santità cristiana non è che la
pienezza della vita battesimale. Ogni cristiano è perciò un battezzato e
insieme un catecumeno.
L'aspetto catecumenale della
Quaresima giustifica la centralità e l'importanza della Parola di Dio
durante questo tempo liturgico. Troppi cristiani sono rimasti allo stadio
infantile nella loro formazione religiosa o non hanno saputo assimilare né
approfondire quello che hanno ricevuto; per molti, poi, la contro-catechesi
delle teorie laiciste e della mentalità secolarizzata, così abbondantemente
dispensata dai mass-media, si è sovrapposta alla prima semina del Vangelo nella
loro anima fino a rendere l'insegnamento di Cristo completamente ininfluente
sulla loro vita. Per molti battezzati è perciò necessaria una
rievangelizzazione, e comunque per tutti noi è indispensabile un ascolto più
sincero e interiore della Parola di Dio. Ci serve perciò un accostamento umile
e profondo alla catechesi della Chiesa per alimentare quella fede ricevuta nel
battesimo, fede che dev’essere tanto più forte ed efficace quanto più lontano
da essa, e spesso ostile, è l'ambiente in cui dobbiamo viverla e testimoniarla.
L'aspetto penitenziale della
Quaresima interessa
ugualmente tutti i cristiani. La nostra prima conversione, e lo stesso
sacramento del battesimo, non hanno tolto dalla nostra anima le radici del
peccato, né hanno spento le inclinazioni al male; esse restano in noi e sono la
causa di tanti nostri cedimenti, debolezze e peccati personali. Siamo dunque
tutti peccatori, bisognosi di penitenza e di continua conversione. La Quaresima si
caratterizza così come "tempo forte", tempo di lotta e di impegno
ascetico. E' una lotta che si conduce su più fronti, perché il male non è solo
dentro di noi, conta anche alleati esterni che agiscono nel mondo come nemici
di Dio: il demonio e lo spirito mondano.
N. 3. LA PRIMA DOMENICA DI
QUARESIMA
La Prima domenica di Quaresima
ci presenta subito la figura di Cristo come lottatore: affronta il demonio che
lo aggredisce con le sue tentazioni. Gesù subì soltanto tentazioni esterne dal
momento che la sua perfetta integrità morale e la sua assoluta santità non erano
compatibili con il disordine della concupiscenza e con le inclinazioni al male
- tentazioni interne - che caratterizzano la nostra condizione di peccatori: “Fu in tutto simile a noi tranne che nel
peccato" dirà San Paolo. Gesù tuttavia volle essere tentato dal
diavolo per due motivi: primo, per riparare la nostra sconfitta. Il demonio
infatti travolse i nostri progenitori con le sue suggestioni; ora egli continua
ad agire nel mondo e, non potendo far nulla contro Dio, si accanisce contro
l'uomo, cioè contro la creatura che porta il sigillo e l'immagine di Dio. Gesù
mettendosi al nostro posto sostituì la nostra sconfitta con la sua vittoria.
Secondo motivo, volle essere tentato per insegnarci come dobbiamo lottare e
vincere nelle nostre tentazioni. Innanzitutto egli ci insegna a smascherare
l'inganno. Ogni tentazione è essa stessa un inganno, è il tentativo di far
apparire come bene ciò che non lo è, di farci credere che troveremo la felicità
in ciò che appaga la nostra superbia e la nostra concupiscenza anche se offende
Dio e va contro la sua volontà. Il demonio usa le cose buone per tentarci al
male, così come ha usato la
Parola di Dio per tentare Gesù.
In secondo luogo, Gesù ci insegna a non
discutere con la tentazione; egli semplicemente la respinge. Il primo cedimento
sta nel dialogare con il nemico; occorre invece prevenire, fuggire le
occasioni, resistere prontamente e con decisione spegnendo le prime avvisaglie
di suggestione.
In ogni caso occorre
conservare una grande fiducia in Dio che non ci lascia mai soli nella prova, e
una serenità interiore che ci mantenga la lucidità di coscienza. La tentazione,
per quanto violenta, sfacciata e accompagnata da turbamenti sensibili, non è
ancora peccato finché non c'è la nostra piena e consapevole accettazione.
Spesso il Signore permette che siamo tentati per saggiare la nostra fedeltà,
per mantenerci umili e vigilanti dandoci una più profonda conoscenza di noi
stessi, e per farci acquistare esperienza che ci conduca a comprendere, amare
ed aiutare i nostri fratelli nelle loro cadute. Del resto, nessuno può mai
vincere una tentazione senza la grazia di Dio. Perciò è indispensabile la
preghiera, che diventa la nostra arma più efficace e, se umile e perseverante,
sorgente sicura di vittoria. In fondo, il primo e peggior nemico che abbiamo
siamo noi stessi; il demonio, dice S. Agostino, è un cane legato a catena che,
abbaiando, cerca di impaurirci, ma morde solo quelli che gli si avvicinano. Le
promesse battesimali contengono un categorico rifiuto di seguire il demonio:
"Rinunci a Satana, causa e origine di ogni peccato?" -
"Rinuncio!".
L'aspetto battesimale
e l’aspetto penitenziale della Quaresima, presentandoci Gesù lottatore
vittorioso sul male che c'è in noi e nel mondo servono anche a ricordarci che
la nostra vita sulla terra è una milizia, una milizia che, se lo vogliamo, avrà
l'appannaggio della vittoria perché Lui ha vinto.
N. 4. Aspetto sacrificale della Pasqua di Cristo
La Quaresima, come ogni itinerario, ha la sua meta:
è l'incontro con Cristo nel suo mistero pasquale di morte e risurrezione.
L'itinerario battesimale della Quaresima approda alla Pasqua sacrificale di
Cristo: il Battesimo conduce
all'Eucaristia. Abbiamo visto che il battesimo ci ricorda l'aspetto
salvifico della pasqua prefigurato nella pasqua ebraica dell'Esodo, mentre
l'Eucaristia ci ricorda la pasqua sacrificale di Cristo. I due aspetti sono
intimamente legati tra loro perché non ci può essere l'uno senza l'altro. Il
Battesimo e l'Eucaristia sono sgorgati dal sacrificio di Cristo: "dalla ferita del suo fianco effuse sangue ed acqua, simbolo dei
sacramenti della Chiesa". Dunque il centro della Pasqua cristiana è il
sacrificio della Croce. Infatti, prima di essere un atto salvifico che ripara i
nostri peccati, il sacrificio di Cristo è un atto di culto a Dio, un atto di
obbedienza al Padre, e diventa salvifico proprio perché è un atto di adorazione
al Padre.
C'è un episodio
dell'Antico Testamento che ci ricorda l'aspetto sacrificale della Pasqua
cristiana ed è riportato in una delle sette letture bibliche che si leggono
nella Veglia della notte di Pasqua: l'episodio del sacrificio compiuto da
Abramo. Abramo aveva avuto miracolosamente un figlio, Isacco, che secondo la promessa
di Dio doveva garantirgli la discendenza "numerosa come le stelle del cielo e come l'arena del mare".
Ma, quando fu cresciuto, Dio lo chiese ad Abramo in olocausto. Quel figlio era
il suo unigenito, in lui Abramo aveva riposto tutto il suo amore, la sua
speranza, il suo futuro. Il racconto, scarno e lineare, è carico di intensità
drammatica: Isacco, con il carico della legna sulle spalle, seguiva il padre
che lentamente saliva il monte Moria, l'attuale Calvario. Il silenzio pesava
più del sudore, più della fatica, più della montagna. Improvvisamente una
domanda, greve come il rumore dei passi: "Padre mio!... Ecco qui il fuoco
e la legna, ma dov'è l'agnello per l'olocausto?" - "Dio provvederà,
figlio mio!" E sul monte Moria Dio provvide; vi fece trovare l'agnello per
il sacrificio. Anche Cristo, portando la croce sulle spalle, salì il Calvario
seguendo la volontà del Padre e offrendo sé stesso come Agnello innocente, fu
sacrificato al posto di tutti noi.
A questo episodio non
si dà, di solito, un significato strettamente pasquale, e tuttavia è l'episodio
che più di ogni altro si addice, profeticamente, al sacrificio di Cristo; viene
infatti ricordato nella prima Prece eucaristica della Messa. Fu un sacrificio
di obbedienza, cioè di adorazione alla volontà del Padre. In questo sta tutto
il valore della passione e della morte di Gesù. Le terribili sofferenze fisiche
e gli stessi insulti e umiliazioni subite nella passione non hanno avuto la
durezza e il peso di dolore e di ripugnanza che ha avuto il sì obbedienziale
che Gesù ha pronunziato nell'agonia del Getsemani.
In quella notte Gesù
era irriconoscibile: cominciò a tremare di paura e, preso da tristezza mortale,
cadde con la faccia a terra come un cencio. "In preda all'angoscia, pregava più intensamente; il suo sudore diventò
come gocce di sangue che cadevano a terra". Nessuno mai potrà misurare quello che Gesù ha provato nella sua anima
in quella "agonia". - Padre, passi da me questo calice! - Non era
il calice delle sofferenze fisiche, non era il calice degli insulti e dei
maltrattamenti, era il calice della "sconfitta", della maledizione
legata al peccato. La croce era il segno che Dio aveva "abbandonato"
suo Figlio alla sconfitta di fronte agli uomini. Una sconfitta senza possibilità
di rivincita; sconfessato dai suoi e da tutti gli uomini, Gesù apparirà
sconfessato anche da Dio. "Discendi
dalla croce e ti crederemo (...) Ha confidato in Dio; lo liberi ora, se gli
vuol bene, poiché ha detto sono Figlio di Dio!
La Lettera agli Ebrei allude
a quella "agonia" di obbedienza quando scrive: "...egli offrì preghiere e suppliche con forti
grida e lagrime a Colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua
pietà. Pur essendo Figlio, imparò l'obbedienza dalle cose che patì...
"Fu esaudito..." non nel senso che gli fu risparmiata l'umiliazione e
la morte, ma nel senso che fu reso capace di quella obbedienza salvifica che lo
portò ad accettare la "maledizione" e la sconfitta della croce. Lo
liberò infatti dall'angoscia e dalla tristezza mortale che lo aveva schiacciato
nell'Orto degli olivi. Egli non si difenderà; non tornerà in piazza a
convincere i suoi avversari della sua innocenza e a mostrare agli uomini la sua
potenza e la sua vittoria sulla morte. Accetterà di risorgere e salire al cielo
esclusivamente per la gloria del Padre, rinunciando ad ogni significato di
rivincita umana davanti al mondo e anche davanti ai suoi apostoli. Fu liberato
dall'angoscia e dalla morte interiore "per la sua pietà", per la sua
consapevolezza di figlio di Dio che obbediva al Padre. Un angelo fu la conferma
che il Padre aveva accolto la supplica straziante del suo Figlio diletto.
Gesù uscì da quella
orazione trasformato; era tornato quello di sempre: forte, sicuro di sé,
padrone delle situazioni... Perciò la sua inspiegabile remissività di fronte ai
suoi nemici riempì di stupore gli Apostoli che, incoraggiati perfino dalla
difesa che Gesù prese per loro, lo abbandonarono e fuggirono. Gesù subirà con
estrema consapevolezza e dignità l'esecuzione materiale di ciò che egli aveva
accettato nel Getsemani con piena e filiale adesione alla volontà del Padre.
La morte di Gesù ha dunque, agli occhi del mondo, le
apparenze di una sconfitta, di un fallimento, ma agli occhi della nostra fede
essa è stata un "sacrificio", cioè un atto di culto a Dio. Ciò
significa che Gesù non è morto per circostanze fatali, sopraffatto dai suoi
nemici che alla fine hanno avuto ragione di lui; non è stato un eroe di questo
mondo che dopo aver lottato per la giustizia e altri nobili cause, soccombe travolto
dall'astuzia e dalla perfidia degli uomini. Gesù è morto perché l'ha voluto
lui; egli volontariamente si è consegnato alla morte in obbedienza al Padre. E
lo ha fatto quando ha voluto lui, quando venne "la sua ora", quella
segnata dal Padre. Molte volte i suoi nemici avevano tentato di catturarlo, ma
egli non lo permise mostrandosi ogni volta padrone delle situazioni e degli
avvenimenti. "Io offro la mia
vita... Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di
offrirla e il potere di riprenderla di nuovo"
Di più: l'atto stesso
della sua morte non è stato pura conseguenza dei maltrattamenti della passione
- molti hanno cercato inutilmente di spiegare la causa ultima della morte di
Gesù -; Gesù stesso ha deciso il momento di dare la sua vita. Quando Gesù,
dando un forte grido, esclama: "Padre,
nelle tue mani consegno il mio spirito" e muore non ha fatto
semplicemente un atto di fiducia e di filiale abbandono nelle mani del Padre,
ma ha compiuto un vero atto oblativo e sacrificale di sé stesso. In definitiva,
Gesù non subisce la morte, ma offre la
vita. Perciò il suo sacrificio fu l'atto supremo dell'amore, fu tutto e
solo amore.
Questa fu la pasqua
sacrificale di Gesù, che egli portò a compimento sulla croce, completamente
annientato, elevato da terra, nudo, sconfitto e fallito. E questo fu il prezzo
della nostra salvezza, della nostra pace, della nostra felicità eterna.
Nell'Eucaristia Gesù continuerà questa presenza sacrificale, e la Pasqua del cristiano sarà la partecipazione a
questa Pasqua del Signore, finché
egli venga.
N. 5
– Un personaggio tra gli altri
Abbiamo visto qual è l'essenza della
pasqua sacrificale di Gesù, pasqua di morte e di risurrezione. Vediamo ora come
la liturgia "fa memoria" di tutto questo nelle celebrazioni della
settimana santa. E' chiamata la "Settimana grande". In questa
settimana le celebrazioni liturgiche si armonizzano con i fatti storicamente
accaduti negli ultimi giorni della vita di Gesù sulla terra. Questa
storicizzazione della liturgia ha portato forse ad attenuare l'intensità
celebrativa della Grande Veglia pasquale, che nei primi secoli della Chiesa
costituiva il momento culminante di tutto l'Anno Liturgico. In compenso ci
aiuta ad entrare più facilmente nella vita di Cristo e a riviverne i momenti
più significativi e umanamente più intensi. Abbiamo già ricordato altre volte
quello che il Beato Escrivà ha ripetutamente insegnato, che cioè, leggendo il
Vangelo, dobbiamo saper metterci negli episodi che leggiamo come un personaggio
tra gli altri.
Perciò nella domenica
di Passione, detta delle Palme, ci metteremo anche noi tra i discepoli che
accompagnano Gesù nel suo ingresso a Gerusalemme per acclamarlo nostro re; nei
giorni successivi ci porteremo anche noi nel tempio ad ascoltare gli ultimi
discorsi di Gesù e rattristarci per la durezza di cuore dei capi del popolo,
suoi irriducibili avversari; parteciperemo alla tristezza di Gesù che invano
cerca di dissuadere Giuda dal suo complotto con i sommi sacerdoti; e poi anche
noi ci metteremo a tavola con gli apostoli nell'ultima Cena e lasceremo che il
Signore ci lavi i piedi per imparare anche noi la carità fraterna; ascolteremo
le intime confidenze di Gesù e lo seguiremo nell'orto degli olivi cercando i
non lasciarlo solo, combatteremo il sonno e la stanchezza della nostra anima;
anche noi, con gli apostoli rifugiatisi nel Cenacolo, aspetteremo le notizie
che di tanto in tanto arrivano sul precipitare degli eventi: il racconto di
Pietro in lagrime per non aver saputo testimoniare il suo maestro, i discepoli
che ci aggiornano sui processi sommari e ridicoli contro Gesù, e magari anche
noi ci mescoleremo alla gente e assisteremo impotenti e in lagrime agli insulti
e ai maltrattamenti contro il Signore, sentiremo le grida della folla che
chiedeva Barabba, e infine, dietro un'angolo della strada, aspetteremo il
passaggio di Gesù con il suo pesante legno sulle spalle, stremato,
irriconoscibile sotto una crudele maschera di sputi, di polvere e di sangue, e
se ci sorregge un po' di audacia seguiremo Giovanni, le donne e soprattutto la
Vergine Santa per arrivare anche noi sul Calvario, e lì, immersi nello stupore
di tutto il creato che si oscura di tristezza davanti al suo Creatore
crocifisso, raccoglieremo le ultime parole di dolore, di amore e di
misericordia che usciranno dal petto di Gesù: le parole rivolte al ladrone,
quelle rivolte alla Madre che, lì sotto la croce, sostiene tutti noi con la sua
fede e con la sua fortezza, e soprattutto le forti grida d'invocazione e di
supplica al Padre che nei cieli accoglie il supremo sacrificio del suo Figlio
diletto: “Padre!.. Tutto è compiuto!.
perdona a loro perché non sanno quello che fanno ... Nelle tue mani consegno il
mio spirito!".
Poi aspetteremo che
la folla se ne vada, raccoglieremo le ultime gocce di sangue che sgorgheranno
dal suo fianco trafitto e insieme a Giuseppe D'Arimatea e a Nicodemo caleremo
dalla croce quel corpo disfatto per consegnarlo all'abbraccio dolente e
tenerissimo di Maria; con le donne lo puliremo dalla sporcizia, dai grumi di
sangue, dalle croste di sudore, e baceremo quelle ferite con dolore d'amore
spalmandole poi di aloe e di mirra, ricoprendole con la sindone nuova, pulita e
odorosa, e avvolgendolo con le bende e con le fasce...; e dopo tanta fatica e
tanto dolore lo affideremo al riposo di un sepolcro nuovo in attesa - noi ora
lo sappiamo bene! - del suo risveglio nella gloria.
*****************************
NOTA. Prima di addentrarci nel capitolo
dedicato alla domenica del “Trionfo delle Palme” riportiamo due capitoli che
l’autore ha voluto dedicare al significato e alla distinzione della festa della
Pasqua: quella ebraica e quella cristiana.
In tal modo ci dovrebbe essere più facile anche la comprensione del
significato penitenziale che la Chiesa cattolica ha inteso dare al periodo
della Quaresima, detto anche “periodo forte”, cioè di maggior impegno
spirituale di purificazione personale e comunitaria.
N. 6 – La Pasqua ebraica
La Pasqua è il culmine della Storia della salvezza;
è perciò il cuore di tutto l'anno liturgico. Riguardo a Cristo, la Pasqua è il completamento
della sua Incarnazione; è la realizzazione estrema della sua "spoliazione"
- "annientamento" la chiama S. Paolo - avendo accettato di assumere
la nostra umanità fino alla sua condizione di condanna e di morte. "Cristo Gesù, pur essendo di natura divina (Figlio
di Dio), non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò sé stesso assumendo la condizione di
servo e divenendo simile agli uomini (Incarnazione); apparso in forma umana (Natale), umiliò sé stesso (Passione), facendosi
obbediente fino alla morte (agonia) e
alla morte di croce (Morte). Per
questo Dio l'ha esaltato (Risurrezione) e
gli ha dato un nome che è al di sopra di ogni altro nome (Redentore
universale e Capo della Chiesa), l'ha
costituito Signore (Re e giudice) a
gloria di Dio Padre (Ascensione). Questo inno di S. Paolo abbraccia tutto
il Mistero di Cristo e ricapitola l'opera sublime della salvezza.
Quanto a noi, la Pasqua è "transitus
Domini", il passaggio del Signore; come Gesù, e insieme con lui, anche noi
passiamo dalla morte alla vita. Cristo ci libera dalla condizione di schiavi e
ci fa passare alla libertà di figli. Questo "passaggio" dalla
schiavitù alla libertà, dal peccato alla grazia, è stato prefigurato da ciò che
Dio aveva compiuto nell'Antico Testamento per i figli di Israele quando
"passò" per liberarli dall'Egitto, come narra il libro dell'Esodo. Fu
la Pasqua
ebraica che possiamo considerare come "Epopea della Salvezza".
Quella sera gli Ebrei
sacrificarono l'agnello e con il sangue segnarono le porte delle loro case.
Nella notte "passò" il Signore e fece giustizia sui primogeniti
dell'Egitto risparmiando le case degli Israeliti. Essi poterono così partire e,
guidati da Mosè, passarono il Mar Rosso per incamminarsi verso la Terra promessa. Quel rito
doveva ripetersi ogni anno al plenilunio di primavera, di generazione in generazione.
"Allora i vostri figli vi
chiederanno: Che significa questo atto di culto? Voi direte loro: E' il
sacrificio della Pasqua per il Signore, il quale è "passato oltre" le
case degli Israeliti in Egitto, quando colpì l'Egitto e salvò le nostre case".
La Pasqua ebraica aveva valore
di segno, era una figura profetica della Pasqua
di Cristo: Gesù è il vero agnello che toglie i peccati del mondo, la sua
immolazione è il vero Sacrificio che libera gli uomini dalla schiavitù del
peccato, il suo Sangue ha sancito la nuova Alleanza che sostituirà per sempre
l'antica Alleanza sancita dal sangue dell'agnello. In Gesù, morto e risorto,
Dio realizza tutte le sue promesse e dà compimento alla salvezza del mondo.
Dicevamo che ogni
cristiano è chiamato a morire e a risorgere con Cristo per essere, in Lui, una
"creatura nuova". La
Pasqua di Cristo diventa così la
Pasqua dei
cristiani. Tutto si compie nella Chiesa per opera dello Spirito Santo che
attua in ogni credente il mistero pasquale di Cristo. Proprio nella Liturgia
pasquale la Chiesa
unisce nella celebrazione liturgica la Pasqua di Cristo e la Pasqua dei cristiani.
N. 7 – La Pasqua cristiana
Il tempo pasquale è chiamato dalla Chiesa
"tempo forte", forte perché fondamentali sono le verità che vengono
ricordate, ma forte anche per i temi della vita cristiana che vengono
riproposti. Il cristiano è colui che nasce dalla Pasqua di Cristo; è colui che
rivive il mistero di morte e risurrezione del Signore.
Gli Ebrei celebravano
la Pasqua come
un rito "per non dimenticare", un memoriale che ricordava quello che
Javhè aveva compiuto con i loro padri. Era quindi un rito di lode e di
ringraziamento al Dio d'Israele per i grandi benefici che egli aveva concesso
al suo popolo.
La
Pasqua di Cristo
non fu un rito ma un "mistero", cioè un reale intervento di Dio
nell'umanità di Cristo. Dio volle rinnovare tutta l'umanità e l'intera
creazione secondo il suo disegno di salvezza attraverso l'offerta sacrificale
di suo Figlio fatto uomo. La
Pasqua di Cristo ha dunque un valore ben diverso dalla Pasqua
ebraica, non solo perché questa era la "figura" e Cristo è la
"realtà", ma anche perché Cristo, nella sua Pasqua, unisce
intimamente l'aspetto salvifico all'aspetto sacrificale: Cristo è Redentore e
insieme Sacerdote eterno. La
Pasqua dell'Esodo, infatti, rivestiva soprattutto un
significato salvifico: l'agnello pasquale serviva per segnare col sangue le
porte degli Ebrei e così salvare il popolo dal giogo del Faraone e i
primogeniti dallo sterminio; la
Pasqua di Cristo riunisce in sé i due aspetti, quello
salvifico e quello sacrificale: proprio perché fu un sacrificio di adorazione
al Padre, la Pasqua
di Cristo ebbe un valore salvifico per tutta l'umanità.
Anche nella Pasqua
cristiana ritroviamo tutti e due gli aspetti: la
Pasqua cristiana è
rito ed è mistero; è rito perché richiama i segni salvifici della Pasqua
ebraica, ed è mistero perché contiene la realtà del Sacrificio di Cristo. La Chiesa perciò chiama la Pasqua cristiana:
Sacramenta paschalia: i Sacramenti pasquali. I Sacramenti che hanno significato
pasquale sono il Battesimo e l'Eucaristia. Il Battesimo ci ricorda e attua in
noi l'aspetto salvifico della Pasqua, aspetto prefigurato nella liberazione
degli Ebrei dall'Egitto attraverso le acque del Mar Rosso; l'Eucaristia ci
ricorda e attua in noi il sacrificio di Cristo nella sua Pasqua di morte e
resurrezione. Tutta la
Liturgia pasquale è insieme Liturgia battesimale e Liturgia
eucaristica. Gesù stesso chiama la sua morte un "Battesimo".
Nel richiamare queste
realtà è necessario da parte nostra uno sforzo di riflessione. C'è il pericolo
infatti che noi ascoltiamo queste cose e le sentiamo come lontane nel tempo ed
estranee alla nostra situazione attuale, alla nostra realtà quotidiana. Queste
sono certamente cose di Dio - pensiamo - e deve farle lui, noi abbiamo le
nostre cose - il lavoro e i suoi problemi, la famiglia e le sue necessità, la
società e le sue vicende... - e dobbiamo pensarci noi. Abbiamo già detto che la Storia di Dio (storia
sacra) e la storia dell'uomo non sono due storie parallele; Dio agisce dentro
la storia dell'uomo e il tempo della salvezza è presente in ogni momento della
nostra vita. Parlando della fede come strada che conduce la nostra esistenza
terrena, dicevamo che la fede è "vedere" presente nella mia vita il
Dio-che-salva. Dobbiamo chiedere alla Madonna che "portava tutte queste cose
meditandole nel suo cuore", di sentirci anche noi "interessati a
quanto Dio ha fatto e continua a fare nel mondo. La vita del cristiano è una
vita pasquale, è la vita di Cristo morto e risorto che in qualche modo continua
in noi.
N. 8 – Il “trionfo” delle Palme
Possiamo rivivere tutto questo nel
silenzio e nel raccoglimento della nostra anima mentre partecipiamo ai riti
liturgici della Settimana Santa, soprattutto la liturgia del Triduo pasquale
culminante nella grande Veglia della notte di Pasqua.
La settimana comincia nel segno del trionfo e della gloria; Gesù entra
nella città santa accompagnato da manifestazioni messianiche: Osanna al Figlio di David! Benedetto colui
che viene nel nome del Signore! Gesù stesso organizza il suo corteo
trionfale, e c'è in tutti la convinzione che il regno messianico è ormai
inaugurato. La folla che accompagnava Gesù deve essere stata abbastanza
numerosa per la presenza di molti pellegrini che dalla Galilea salivano a
Gerusalemme per la Pasqua,
e formata soprattutto dai suoi discepoli; anche le manifestazioni avevano
assunto un significato spiccatamente messianico con aspetti anche
trionfalistici.
In questa domenica la
liturgia si veste di rosso, il colore della regalità, ma anche il colore della
passione e del martirio; i due aspetti si richiamano perché dietro il trionfo
c'è la passione e soprattutto perché Cristo regnerà dalla croce. La celebrazione
liturgica coglie quindi il mistero che è presente dentro ogni episodio della
vita di Cristo e lo celebra nella solennità del rito. Noi partecipiamo alla
celebrazione cercando con l'aiuto della fede di entrare intimamente nel mistero
di Cristo; ma ci sono due particolari nella vicenda di questa giornata che
meritano di essere meditati, particolari che appaiono nel Vangelo e dei quali
uno solo è ricordato dalla liturgia: l'asinello come uno dei protagonisti del
corteo di Gesù e il pianto del Signore su Gerusalemme.
Presso gli Ebrei ed
altri popoli dell'antichità, l'asinello era la nobile cavalcatura dei re e dei
dignitari, e voleva indicare, a differenza del cavallo che significava guerra e
prepotenza, la mansuetudine e la pace; tale lo proclamò il Profeta Zaccaria e
Gesù col suo gesto volle dire esplicitamente che egli veniva, come re di pace,
a dare compimento a quella profezia messianica.
L'asinello arrivò
così a suscitare l'invidia di molti santi. Portare Cristo nel suo trionfo,
portare Cristo nel mondo, fu il sogno e l'umile ambizione di molte anime
grandi. Scrive S. Ambrogio: "Dall'animale mansueto di Dio, impara a
portare Cristo (...) impara ad offrirgli con gioia la groppa; impara a stare
sotto Cristo, perché tu possa stare al di sopra del mondo!". Ma colui che
più di ogni altro ci ha lasciato una visione lirico-ascetica dell'asinello è
stato san Josemaria Escrivà. Ecco uno dei suoi numerosi passi proprio a
commento dell'ingresso di Gesù a Gerusalemme: "Gesù accetta di avere per
trono un povero animale. Non so se capita anche a voi, ma io non mi sento
umiliato nel riconoscermi dinanzi al Signore come un somarello:" Sono come un somarello di fronte a
te , ma sono sempre con te, perché tu mi hai preso con la tua destra", tu
mi conduci per la cavezza.
“Pensate un po' alle
caratteristiche di un somaro, ora che ne restano così pochi. Non pensate
all'animale vecchio e cocciuto che sfoga i suoi rancori tirando calci a
tradimento, ma l'asinello giovane, dalle orecchie tese come antenne, austero
nel cibo, tenace nel lavoro, che trotta lieto e sicuro. Vi sono centinaia di
animali più belli, più abili, più crudeli. Ma Cristo, per presentarsi come re
al popolo che lo acclamava, ha scelto lui. Perché Gesù non sa che farsene
dell'astuzia calcolatrice, della crudeltà dei cuori aridi, della bellezza
appariscente ma vuota”.
N. 9 – Il pianto di Gesù
L'altro particolare che i Vangeli
riportano non ricordato dalla Liturgia è il pianto di Gesù sulla sua città. E'
un pianto che ci lascia profondamente turbati; non tanto perché avviene nel
momento culminante del suo trionfo, ma soprattutto per il suo significato e per
il motivo che l'ha provocato. Arrivato alla sommità del Monte degli Olivi, il
corteo si accingeva a scendere su Gerusalemme attraverso la valle del Cedron.
Da quel punto, la Città
santa si presentava in tutta la sua bellezza. I tetti dorati del tempio
risplendevano al sole del primo mattino in una primavera già piena di
splendore, le sottostrutture alla spianata del Tempio presentavano tutta la
loro imponenza e la loro forza, la città era un incanto, era lì come da secoli
l'avevano sognata i profeti: una "visione di pace" - beata pacis
visio - destinata ad essere la città-dimora di Dio, la "Sposa di Jawè", la madre di tutte le nazioni, a lei
sarebbero venuti tutti i popoli della terra perché in lei Dio avrebbe compiuto
le sue meraviglie e avrebbe fatto risplendere la sua gloria.
Invece, la città
santa ha mancato alla sua vocazione, la città eletta e amata da Dio non ha
corrisposto al suo amore, non ha conosciuto il tempo della visita del suo Dio;
essa, "Città della pace" non ha compreso
la via della pace. Perciò sarà preda dei suoi nemici che abbatteranno lei e
i suoi figli dentro di lei non lasciando del suo splendore pietra su pietra.
Il pianto di Gesù,
pianto che avrà lasciato sorpresi e disorientati i discepoli, non fu soltanto
dolore per la fine della città eletta che ogni buon israelita amava
immensamente, fu anche tristezza profonda, e continua ad essere cocente
delusione per ogni anima che manca agli appuntamenti con Dio, agli appuntamenti
con la propria vocazione e ai propri compiti, per ogni anima che, pur sapendo
di quale amore Dio l'ha amata, non ha saputo accogliere l'Amore.
Forse pensiamo che il
pianto di Gesù possa essere stato simbolico. Ad un uomo forte, consapevole
della propria dignità, padrone assoluto dei propri sentimenti e signore di ogni
situazione, non si addice il pianto. Cristo, invece, ha pianto; ha pianto
perché era profondamente umano e l'intensità dei suoi sentimenti era pari alla
perfezione della sua personalità. Gesù ha pianto perché vero uomo; il pianto fa
parte della condizione umana. Senza il peccato l'uomo avrebbe pianto di gioia e
di felicità conoscendo l'amore di Dio; col peccato l'uomo piange di tristezza e
di dolore conoscendo la debolezza e la morte. Gesù ha pianto di dolore e d'amore, ha pianto per l'uomo, ha pianto per
ciascuno di noi, per quando non abbiamo saputo riconoscere il tempo della
sua visita, e non abbiamo saputo comprendere la via della pace.
Le lagrime sono una
prerogativa dell'uomo e sono un dono di Dio. La liturgia conosce una preghiera
per chiedere il dono delle lagrime, lagrime che siano di dolore e di amore e
riscattino il pianto di Gesù. Un uomo che non sa piangere non conosce il dolore
e non conosce l'amore; certamente non ha sperimentato la gioia di essere uomo.
Soprattutto non ha conosciuto la felicità di sapersi figlio di Dio.
N. 10 – La Risurrezione: fondamento della fede
La liturgia del triduo pasquale celebra il
mistero di Cristo morto-sepolto-risorto, mistero che si manifesta negli
avvenimenti dolorosi e tristi che tutti conosciamo e che abbiamo già ricordato.
Ora, quegli avvenimenti si aprono sul "trionfo" della risurrezione,
sulla "vittoria" della pasqua. La Pasqua diventa così il culmine di tutto l'anno
liturgico, il culmine della vita della Chiesa; ciò che si è compiuto in quel
giorno ha rinnovato ogni cosa, ha siglato il trionfo della potenza e della
misericordia di Dio, e insieme ha ricuperato il valore e il significato del
tempo e della storia umana.
Noi, uomini del terzo
millennio, facciamo fatica a capire queste cose, ad entrare con convinzione in
questo Mistero. Abbiamo l'impressione che tutto questo sia enfasi, retorica, un
genere letterario che non ha consistenza pratica nella realtà della vita.
L'uomo della civiltà tecnica e consumista, che cos'ha in comune con la Risurrezione di
Cristo? Per risolvere i problemi dell'uomo che importanza può avere un Giudeo
che duemila anni fa è risorto?
Sono crollate le
strutture sociali e politiche delle ideologie, ma i loro principi e le loro
categorie intellettuali sono rimaste profondamente radicate nel modo di pensare
oggi dominante. I principi sono riassunti fondamentalmente nell'affermazione
che le cose di questo mondo non hanno un loro rapporto con Dio: è il principio
dell'immanenza. Ne deriva la chiusura di ciò che è terreno e umano a ciò che è
divino e soprannaturale, la presunta incompatibilità o estraneità del tempo con
l'eternità. Perciò la
Risurrezione di Cristo è un fatto che non ci riguarda, o non
ci interessa ai fini di risolvere i problemi dell'uomo, problemi che sono
esclusivamente terreni: economici, sociali, problemi di qualità della vita.
Come possiamo noi
cristiani capire e far capire agli altri che le verità della nostra fede sono
fondamentali per la vita dell'uomo? Come liberarci dalle strettoie anguste e
asfissianti di una cultura laica così povera e debole che non riesce ad andare
oltre ciò che è contingente, puramente storico, ciò che è addirittura
provvisorio o effimero nella vita umana e nella storia dell'umanità? E’
necessario rompere il muro dell'immanente per aprirsi all’orizzonte sconfinato
della realtà di Dio e della sua presenza nella vita e nel destino degli uomini.
Noi cristiani abbiamo ricevuto il dono
inestimabile della fede per cui "non
fissiamo lo sguardo (soltanto) sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le
cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne". Camminare nella vita senza la fede è una
grande sventura e rischia di essere una disgrazia irreparabile. Se il nostro Vangelo rimane velato, lo è per
coloro che si perdono, ai quali il dio di questo mondo ha accecato la mente
incredula, perché non vedano lo splendore del glorioso Vangelo di Cristo".
Ora
il Vangelo che ci è stato annunciato è che Cristo
morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il
terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa (Pietro) e quindi ai
dodici. Perciò se Cristo non fosse risorto vana sarebbe la nostra fede e
noi saremo ancora nei nostri peccati. E
anche quelli che sono morti in Cristo, sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto
speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti
gli uomini. Cristo risorto è il dato fondamentale della nostra fede ed è
l'evento determinante per la salvezza e per il destino dell'umanità.
Era necessario
richiamare l'importanza e la necessità della fede riguardo alla Risurrezione di
Gesù, sia come fatto che come mistero, perché ogni discorso sul cristianesimo
resterebbe marginale e in certo senso anche retorico se non partisse da questo
presupposto, che è stato fin dall'inizio il fondamento della predicazione degli
apostoli e come la piattaforma di tutto l'edificio della Chiesa.
Gesù Risorto è il
sigillo a tutte le opere di Dio, è la conferma di tutto ciò che nell'uomo è
rimasto integro, retto e nobile per sapienza e per virtù ed è la risposta
definitiva di Dio sul nostro destino.
N. 11 – Capire la Risurrezione
La solenne Liturgia pasquale inizia con la
grande Veglia del Sabato Santo Essa si presenta con la fisionomia di una
"notte illuminata" dai bagliori delle opere di Dio, ricordate nelle
Letture, fino all'esplosione di luce di Cristo risorto e culmina nella gioia
incontenibile del giorno di Pasqua. Non è questa la sede per esporre e
assaporare la bellezza dei riti liturgici del Triduo pasquale, da quello del
giovedì santo a quello suggestivo della Veglia. Ciascuno la scoprirà
direttamente in quei giorni nella partecipazione alla Liturgia.
Del significato
battesimale della Pasqua già ne abbiamo parlato. Ci sono, però, due riflessioni
sul grande mistero di Cristo risorto che possono avere un notevole impatto
sulla nostra fede e sulla nostra vita cristiana. La prima riflessione riguarda
la natura della risurrezione di Cristo. Nella Bibbia e soprattutto nel Vangelo
si ricordano vari episodi di morti che vengono risuscitati dalla potenza di
Dio. Il più famoso è quello di Lazzaro che viene chiamato fuori dal sepolcro
dopo quattro giorni di sepoltura. In tutti questi miracoli, le persone
risuscitate vengono richiamate in vita; si tratta cioè di un ritorno alla
condizione di prima, alla vita presente. Le stesse espressioni usate dal
Signore lo fanno capire: quel "Lazzaro,
vieni fuori!" è come un imperativo divino a tornare indietro, a
tornare a vivere la vita terrena. E quando a Naim richiama in vita il figlio
della vedova, e a Cafarnao risuscita la figlia di Giairo, Gesù comanda di
alzarsi - alzati! - rimettiti in piedi, riprendi la vita che hai lasciato.
"E lo diede a sua madre",
lo restituì alla vita. Si tratta dunque della vita attuale, passibile, mortale,
ancora soggetta ai limiti e alla precarietà della condizione terrena. Non c'è
una vera "novità" nella risurrezione dei risuscitati.
La
Risurrezione di
Cristo è invece una "novità" assoluta. La vita di Cristo risorto
è una vita nuova, è appunto partecipazione alla vita eterna. Il corpo di Gesù è
un vero corpo, ed è "di Gesù", ma in una condizione del tutto nuova,
completamente diversa. E' un corpo non più soggetto alle leggi attuali, alla
gravitazione, alla impenetrabilità, alle necessità fisiologiche, alla fatica,
al ciclo biologico, alla morte: il tempo non conta più, si è come fermato. E
soprattutto il corpo partecipa alla beatitudine e allo splendore dell'anima.
Perché mai gli Apostoli di fronte a Cristo risorto sono stati presi da stupore
e spavento come di fronte a un fantasma, mentre non si sono per niente
allarmati davanti a Lazzaro e agli altri risuscitati da Gesù? E' che Gesù
risorto era, sì, con i segni evidenti della sua passione, ma non era il Gesù
"pesante" di prima; era un Gesù "leggero", etereo, con un
vero corpo ma spiritualizzato.
La risurrezione di
Gesù è stata una "pasqua", un passaggio. Il passaggio dalla morte
alla Vita, dalla condizione terrena, mortale, perciò precaria e provvisoria,
segnata dal peccato, alla condizione celeste, definitiva ed eterna, segnata
dalla beatitudine e dalla gloria. E' un cambiamento inimmaginabile, Gesù lo
definisce un "entrare nella gloria"
cioè nella condizione propria di Dio. E' paragonabile a una nuova creazione. Gesù infatti precisa
che per entrare nella gloria "bisognava
che Cristo sopportasse queste sofferenze", proprio perché esse erano
legate alla "maledizione" del peccato. La risurrezione, quindi, non
ha il significato di un portento spettacolare atto a dimostrare che Gesù è
veramente figlio di Dio e Messia - per questo sarebbe dovuto andare nel tempio,
farsi vedere ai suoi uccisori e manifestarsi al popolo - ha invece il
significato di un intervento divino per dirci che è stata tolta per sempre la
maledizione del peccato e l'uomo ha così accesso alla gloria.
In altre parole, la
risurrezione di Gesù non è una vittoria "mondana", una rivincita di
fronte al mondo, ma una "vittoria di Dio" un gesto della sua
misericordia e del suo infinito amore di Padre che, attraverso l'umiliazione e
la morte del suo Figlio unigenito ha voluto riconciliare a sé tutte le cose,
tutti gli uomini. Capire questo è fondamentale per la fede e per la nostra vita
cristiana
N. 12 – Cristo è vivo!
La seconda riflessione è una conseguenza
della prima: Cristo è dunque risorto, perciò Cristo è vivo! Gesù non è più un
personaggio del passato; egli è ormai vivo per sempre ed è contemporaneo di ogni
uomo in ogni tempo. "Perché cercate
tra i morti colui che è vivo?" - "Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere
su di lui. "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del
mondo".
Fare propria questa
convinzione è indispensabile per la nostra vita interiore . Il nostro rapporto
personale con Gesù non avrà bisogno di uno sforzo psicologico per richiamare un
personaggio del passato, non esigerà mediazioni della fantasia o della memoria;
Gesù è vivo adesso e possiamo incontrarlo adesso: possiamo ascoltarlo,
parlargli, unirci intimamente a Lui nell'Eucaristia. Proviamo a pensare alle
donne che si recarono al sepolcro in quel mattino di pasqua. La semplicità e
l'immediatezza della loro fede: la pietra ribaltata, il sepolcro vuoto, e
soprattutto gli angeli che le rassicuravano e affermavano con tutta chiarezza
che Gesù era risorto e "...lo
vedrete". Tutto questo è bastato per la loro fede e la loro certezza.
Ma soprattutto era quel "lo vedrete" che le ha riempite di gioia:
"Abbandonato in fretta il sepolcro,
con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l'annuncio ai suoi
discepoli".
A quelle donne non
importava molto dei "se" o dei "come", non si diedero a
grandi e complicati ragionamenti; quello che per loro aveva importanza era che
Gesù era vivo, lo potevano ancora vedere, ascoltare, servire, prendersi cura di
lui. E quando effettivamente lo videro e gli abbracciarono i piedi, la loro
gioia non ebbe limiti, tutti gli altri problemi non esistevano più, o non erano
più problemi; la stessa incredulità e lo scetticismo degli apostoli erano sì
motivo di amarezza e di afflizione ma non impedivano minimamente la loro gioia
immensa perché Gesù era ancora con loro.
Quando si ama, si
desidera incontrare la persona amata e si è felici della sua presenza. Le donne
del Vangelo si renderanno poi conto che la presenza visibile di Gesù era
limitata a pochi giorni e ci vorrà anche per loro, come per gli Apostoli, la
luce dello Spirito Santo per comprendere pienamente ciò che era accaduto, ma
ormai il dato fondamentale era indubitabile: Gesù era vivo ed era lì, presente
in mezzo a loro.
Anche ora Gesù è
presente sulla terra, ma in modo non visibile, e questo trae in inganno gli
uomini. In un certo senso, Gesù continua a comportarsi analogamente a come si è
comportato nella sua vita e nella sua passione. Non ha mai ceduto alle
provocazioni umane, non è andato in piazza a dimostrare con gesti strepitosi la
sua messianicità, non è sceso dalla croce per far vedere che era figlio di Dio
e, risorto, non si è preso rivincite "mondane". Egli continua ora la
sua presenza nella Chiesa - nell'Eucaristia, nei Sacramenti, nel suo Vangelo -
una presenza invisibile e umanamente perdente: lo si può infatti insultare,
deridere, profanare, si può rifiutare il suo Vangelo, crocifiggere i suoi
discepoli, emarginarlo dalla vita dei popoli, proclamare che il mondo non ha
bisogno di lui, anzi, che proprio il mondo ci dà quello che lui non può darci:
la gloria, i piaceri, il successo, il potere...; e tuttavia ci sono milioni di
persone che lo amano, che per lui si convertono dai loro peccati, lo seguono,
disposti a fare per lui qualsiasi cosa...; il suo Vangelo continua ad
illuminare gli uomini, i suoi Sacramenti continuano a santificare le anime, il
suo Spirito a fecondare la terra. La sua presenza di Figlio di Dio, morto e
risorto, continua ad essere presenza di salvezza e la Chiesa continua a
presentarlo al mondo intero come vittima pasquale presente in mezzo a noi:
"Ecco l'Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo!"
Gesù è vivo, posso
incontrarlo, frequentarlo, ascoltarlo, amarlo; posso seguirlo da vicino, posso
servirlo a tempo pieno, posso dargli ogni cosa e tutto me stesso. Posso farlo
vivere in me così da renderlo presente in ogni luogo dove passo, dove lavoro,
dove vivo. Posso farlo conoscere a quanti mi incontrano e mi chiedono ragione
della mia gioia e della mia speranza.
Ferdinando
Rancan
Da
“La moneta del tempo”.
Fine
dei capitoli dedicati ai Quaresimali