LA SETTIMANA SANTA CON
GESU’
Brani
tratti dal libro “IN QUELLA CASA C’ERO ANCH’IO”
di
Ferdinando Rancan
BREVE INTRODUZIONE
Per chi non avesse ancora letto questo libro di
don Ferdinando Rancan citato nel titolo, la cui prima edizione è del 2005, è doveroso
fornire alcune spiegazioni di base per poterlo comprendere meglio, riportando il
commento dalla quarta pagina di copertina:
“Essere
un personaggio tra gli altri” nelle scene del Vangelo, nella vita di Gesù e
dentro la Famiglia di Nazareth, è questo il filone principale di tutto il
libro, cioè il desiderio che conduce l’Autore ad entrare nella storia di Cristo
per viverla dal di dentro, in prima persona.
Volendo
mettersi nelle scene del Vangelo come un personaggio tra gli altri, l’Autore
non ha trovato niente di meglio che farsi piccolo e sentirsi come un bambino
che Maria ha adottato introducendolo nella sua casa e poi nella sua famiglia.
Da allora il Vangelo non viene considerato come semplicemente un libro, ma
diventa una vicenda personale vissuta e raccontata in prima persona. E così il
desiderio si trasforma in stupore, entusiasmo e infine amore appassionato e
felice.
Il
racconto è arricchito dalla fantasia dell’Autore il quale, pur muovendosi con
libertà in mezzo ai vari personaggi, cerca di rispettare il più possibile la
loro verità senza arbitrarie forzature che possano alterarne la realtà storica,
e così il tratto intimo e diretto con Gesù e con la Vergine Santa trasforma la
lettura del Vangelo in un itinerario contemplativo impregnato di fede e di
amore”.
Il libro ha avuto la presentazione dell’allora
Vescovo di Verona, Mons. Flavio Roberto Carraro (2005), l’approvazione con
“imprimatur” di teologi cattolici, alcuni scritti di congratulazioni da parte
di sacerdoti e Vescovi, oltre che di persone della cultura soprattutto veronese
dove l’autore è più conosciuto. E’ stato tradotto per ora in spagnolo con
diffusione in Spagna e nel sud America e ha vinto alcuni premi a seguito di
concorsi culturali nell’ambito della letteratura di carattere
religioso-ascetico.
Crediamo molto significativo riportare la
“Presentazione” di S. Ecc.za Mons. Flavio Roberto Carraro:
Risuonerà per sempre
nel mondo, perché consegnato alla Storia, il grido appassionato con il quale
Giovanni Paolo II ha dato inizio al suo Ministero Petrino: “Aprite le porte a
Cristo!... Non abbiate paura!... Permettete a Cristo di parlare all’uomo. Solo
Lui ha parole di vita eterna”. L’Uomo-Gesù,
Figlio di Dio e Redentore nostro, al centro dell’intera vicenda umana. Egli
deve entrare negli ambienti della cultura, dell’economia, della politica, in
tutti gli ambienti dove l’umanità esprime se stessa, i suoi valori, ma anche i
suoi problemi, le sue ansie, le sue aspirazioni. Soprattutto Egli deve entrare
nella coscienza di ogni uomo per dare un senso divino, soprannaturale,
all’esistenza umana di ognuno. Si tratta di un’antropologia cristocentrica che
nei credenti dovrebbe diventare un cammino ascetico e spirituale.
A questo grido di
Giovanni Paolo II si è aggiunto in questi giorni
l’invito appassionato di Papa Benedetto XVI il quale, nell’omelia di apertura del Conclave, anticipava il suo programma di Pastore della Chiesa Universale invitandoci a cercare l’amicizia con Gesù Cristo, ad entrare nell’intimità con Gesù. Giovanni Paolo II muoveva da Cristo verso l’uomo, Benedetto XVI muove dall’uomo verso Cristo. È la stessa antropologia cristocentrica che vede Cristo al centro di ogni vicenda umana. Secondo Benedetto XVI non solo ogni credente, ma anche ogni uomo che cerca la verità è invitato a cercare Cristo, a conoscerlo sempre più profondamente per innamorarsi di Lui. Non si tratta quindi di una conoscenza puramente intellettuale, che nell’attuale congiuntura di globalizzazione delle Religioni porterebbe a collocare Cristo semplicemente nella categoria dei grandi leaders spirituali dell’Umanità, ma è l’invito verso un incontro “personale” con Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo, incontro che coinvolge la persona e la vita, e dona all’uomo l’intima esperienza che solo Gesù può dare la vera libertà interiore e la salvezza eterna.
l’invito appassionato di Papa Benedetto XVI il quale, nell’omelia di apertura del Conclave, anticipava il suo programma di Pastore della Chiesa Universale invitandoci a cercare l’amicizia con Gesù Cristo, ad entrare nell’intimità con Gesù. Giovanni Paolo II muoveva da Cristo verso l’uomo, Benedetto XVI muove dall’uomo verso Cristo. È la stessa antropologia cristocentrica che vede Cristo al centro di ogni vicenda umana. Secondo Benedetto XVI non solo ogni credente, ma anche ogni uomo che cerca la verità è invitato a cercare Cristo, a conoscerlo sempre più profondamente per innamorarsi di Lui. Non si tratta quindi di una conoscenza puramente intellettuale, che nell’attuale congiuntura di globalizzazione delle Religioni porterebbe a collocare Cristo semplicemente nella categoria dei grandi leaders spirituali dell’Umanità, ma è l’invito verso un incontro “personale” con Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo, incontro che coinvolge la persona e la vita, e dona all’uomo l’intima esperienza che solo Gesù può dare la vera libertà interiore e la salvezza eterna.
Ed è su questa
linea che si muove il presente volume nato dal cuore di don Ferdinando Rancan,
sacerdote della diocesi di Verona. Una “biografia” di Gesù vista dal di dentro,
che si propone, in sintonia con gli insegnamenti del Papa, di aiutare chiunque
ad entrare sempre più profondamente e più intimamente nel mistero di Cristo,
colui che “svela l’uomo all’uomo” (Gaudium et Spes, 22).
Formulo l’auspicio
che questo intento abbia a realizzarsi pienamente, mentre a don Rancan rivolgo
un sincero compiacimento e lo benedico.
+ Padre Flavio Roberto Carraro
Vescovo di Verona
Verona, 10 maggio 2005
Altri libri dell’autore editi per lo più da
“Fede & Cultura”
LA MADONNA RACCONTA
Confidenze della Vergine Maria ai suoi figli-
LA’ DOVE CIELO E TERRA SI INCONTRANO
La preghiera e la Messa nella vita del
cristiano
RICEVI QUESTO ANELLO -
Riflessioni sul matrimonio e la famiglia
IL TEMPO, L’ETERNITA’
Riflessioni sul senso del vivere
LA MONETA DEL TEMPO Un calendario per l’anima
FIORI DI MELOGRANO
Composizioni poetiche giovanili
INNAMORATO DEL CIELO
Perle di spiritualità di un sacerdote ordinario
UN SOMARELLO E LA SUA STORIA
Autobiografia (Verona Fedele editore)
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LA DOMENICA DELLE PALME
Il corteo delle palme (…) Quando infatti i due Apostoli tornarono col
giovane asinello e Gesù si accinse a salire, nella folla che lo seguiva scoppiò
l’entusiasmo. (…) Il corteo si faceva sempre più numeroso e variopinto: gente
di tutte le età e di tutte le provenienze, ma tutti accomunati da un’unica
convinzione: il momento decisivo era arrivato, il Figlio di Davide entrava come
Re d’Israele nella Città santa. Molti si erano impadroniti delle fronde degli
alberi e dei rami di olivo che provenivano dalla potatura primaverile, e danzando
gridavano: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Osanna nell’alto
dei cieli”.
Gesù, seduto
sull’asinello, si lasciava osannare dalla folla che lo proclamava Figlio di
Davide, “inviato” da Jahvè, il che equivaleva a una proclamazione messianica.
Questo spaventò i Farisei che erano venuti da Gerusalemme, e uno di loro, che
vestiva pomposamente le insegne di dottore della Legge, forzando il cordone
degli Apostoli, si avvicinò a Gesù e con tono di protesta gli disse: “Ma non
senti cosa dice questa gente?”. Gesù fermò il puledro, fissò col suo sguardo
penetrante il fariseo e poi, guardandosi intorno, esclamò: “Se questa gente
tacesse, griderebbero le pietre!”, e diede un colpo al puledro che riprese il
cammino.
Arrivammo così sulla
sommità del Monte degli Olivi; il corteo si accingeva a scendere verso la valle
del Cedron. Ma Gesù arrestò l’asinello e si fermò a guardare la Città santa che
gli stava di fronte in tutta la sua magnificenza. Lo spettacolo era
impressionante. Il sole, ormai alto sull’orizzonte, investiva da oriente la
città che offriva in primo piano il complesso monumentale del Tempio. Era il
Tempio ampliato e abbellito da Erode il Grande. Gesù stette immobile a
guardare. La sua città, la città di Dio, il luogo di tante meraviglie compiute
dal Signore, era lì ai suoi piedi. Improvvisamente si portò la mano davanti
agli occhi e scoppiò in pianto. Quelle mura apparvero a lui in quel momento non
come una cinta di difesa, ma come il segno di un rifiuto, il rifiuto della sua
città ad accoglierlo come Salvatore. Era una città chiusa alla visita di Dio.
Quando con lo sguardo
velato di lagrime tornò a guardare la città, tra un singhiozzo e l’altro,
cominciò a mormorare: “Gerusalemme,
Gerusalemme!”. Giovanni che era accanto a lui poté seguire, profondamente
sorpreso, il lamento del Signore: “Se
anche tu avessi compreso in questo giorno ciò che giova alla tua pace! Ma,
ecco, ora è nascosto ai tuoi occhi. Verranno giorni per te in cui i tuoi nemici
ti cingeranno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte.
Abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te, e non lasceranno in te pietra su
pietra perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata”.
Giovanni
era a conoscenza di quale sorda ostilità regnasse nel Sinedrio da parte degli
Scribi e dei Dottori del Tempio e della chiusura fatta di odio e di vendetta
che regnava nell’animo dei capi religiosi di Gerusalemme nei confronti di Gesù;
perciò il pianto del Maestro, per quanto imprevisto, trovò in lui una
comprensibile giustificazione. Ciò che invece gli risultava incomprensibile era
la fosca previsione sul destino della città, destino che nelle parole di Gesù
appariva come una catastrofe spaventosa. Com’era possibile che tanto splendore,
che la Città santa, la città che fu di David, di Salomone e dei Profeti e che ora
vedeva il trionfo del Messia, com’era possibile che una realtà così eccelsa,
segnata dalla predilezione e dalla gloria di Jahvè, andasse miseramente in
rovina per mano dei pagani? Quarant’anni dopo, quelle parole di Gesù
diventeranno una tragica realtà. (…)
Il lamento di Gesù Sei secoli prima, queste lacrime su Gerusalemme
le versava il grande Profeta Geremia; egli piangeva sulle rovine della sua
città messa a ferro e a fuoco dagli eserciti di Babilonia. Quelle lacrime
cadevano sulle rovine della Città santa, ma il motivo non erano quelle rovine.
Il Profeta versava lacrime sull’infedeltà di Gerusalemme. Il popolo eletto era
venuto meno all’Alleanza col suo Dio. Il pianto del Profeta e i suoi struggenti
lamenti andavano ben oltre il desolante spettacolo di una città distrutta.
Quelle rovine fumanti non erano dovute alle armi di Nabucodonosor, ma alla infedeltà di Israele verso il suo
Signore.
Ora, quella città è qui
davanti ai tuoi occhi, o Gesù; la sua infedeltà all’Alleanza si consuma oggi
nel rifiuto verso il suo Dio che viene a lei mansueto su un asinello. È un
dolore d’amore quello che stringe il tuo cuore; tutte le strade che hai
percorso per salire a Gerusalemme sono state strade d’amore e non c’è altra
risposta al rifiuto della Città amata che le lagrime di dolore. Gerusalemme!
Gerusalemme! Quanta tragica ironia in questo nome. La città che s’intitola
“visione di pace” non ha saputo riconoscere ciò che giova alla sua pace! In
quel momento, quella “visione di pace” si trasformava ai tuoi occhi, o Signore,
in una “visione di distruzione e di guerra”, di dolore e di pianto.
Ma il tuo sguardo, o
Gesù, immensamente più profetico di quello di Geremia, va ben oltre alla tua
città, alle sue mura e al suo Tempio, al suo splendore così dolorosamente
offuscato da un destino di morte. Per te ogni anima è una città santa, ogni
anima è una Gerusalemme dove Dio ha compiuto le sue meraviglie; e quando
quest’anima si cinge di mura impenetrabili, mura di indifferenza, di rifiuto,
di ostinata chiusura alla voce di Dio che viene a visitarla, quest’anima finirà
preda del maligno che distruggerà in lei ogni grazia, spegnerà ogni bellezza,
cancellerà ogni segno dell’amore di Dio riducendola a un tizzone fumante, a un
luogo tenebroso “dove è pianto e stridore di denti”. È la fine miseranda di ogni anima che rifiuta la visita di Dio il vero
motivo del tuo pianto!
Ingresso in Gerusalemme Ripreso il cammino sul sentiero che scende
verso la valle del Cedron, Gesù si ricompose, assumendo un aspetto solenne,
mite ma pieno di dignità, che contribuiva ad alimentare l’entusiasmo della
folla. Folla che andava aumentando perché molti pellegrini, soprattutto Galilei
venuti a Gerusalemme per la Pasqua, saputa la notizia, uscivano dalla città per
andargli incontro. (…)
L’atrio dei Gentili rigurgitava di gente; in
mezzo ad essa erano molti bambini e fanciulli che gridavano con l’insistenza
propria dei bambini: “Osanna al figlio di
David! Osanna! Osanna!”. Ma quando Gesù cominciò a parlare, si fece
silenzio in tutto il grande cortile fin sotto i portici di Salomone: “È venuta l’ora, - cominciò, e la sua
voce era forte e solenne - è venuta l’ora
che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, vi dico: se il chicco di
grano, caduto per terra, non muore, rimane solo: se invece muore, produce molto
frutto… Ora l’anima mia è turbata; che dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma
proprio per questo sono venuto! Padre, glorifica il tuo Nome!”. Si udì in
quel momento una voce dal cielo: “L’ho
glorificato e lo glorificherò ancora!”.
Nel silenzio, quella voce echeggiò possente
come un tuono. La gente cominciò a interrogarsi esprimendo le più diverse
interpretazioni, ma nessuno, nemmeno gli Apostoli, compresero il senso delle
parole di Gesù. Egli, infatti, prendendo spunto dalle manifestazioni di gloria
umana che gli erano state tributate, volle proclamare che la sua gloria gli
veniva soltanto dal Padre. Egli lo avrebbe innalzato da terra perché tutte le
creature venissero riscattate e restituite alla gloria di Dio. “Quando sarò innalzato da terra -
esclamò - attirerò tutti a me”.
LUNEDI’
SANTO, MARTEDI’ SANTO, MERCOLEDI’ SANTO
Il
giorno dopo il trionfo del suo ingresso a Gerusalemme, Gesù era in piedi di
buon mattino e si mostrava particolarmente vivace, deciso a recarsi di buon’ora
al Tempio. Consumò insieme agli altri Apostoli la colazione che Marta e le
altre donne avevano preparato, e si mise subito in viaggio. Indossava la tunica
inconsutile che Maria gli aveva tessuto tre anni prima con un lungo e paziente
lavoro, e che Gesù indossava ogni volta che andava a Gerusalemme per recarsi al
Tempio. Gli conferiva particolare dignità, e faceva risaltare maggiormente la
sua autorità.
Prima di partire mi prese in disparte e mi disse di restare
con Lazzaro a Betania, e di mettermi a disposizione di sua Madre.
L’atteggiamento di Gesù in quei giorni mi appariva più disteso e sicuro; aveva
abbandonato le misure di prudenza seguite fino allora, e sembrava che volesse
forzare i tempi. È vero che gli faceva da scudo il favore popolare ancora molto
vivo dopo il suo ingresso in Gerusalemme, ma si vedeva che gli stava a cuore
una cosa: chiudere la partita con i Capi del popolo: il Sommo Sacerdote, i
Farisei, gli Scribi e tutti gli altri, ormai nemici irriducibili della sua
persona. Mancavano infatti quattro giorni alla Pasqua ed egli faceva capire che
erano per lui giorni decisivi.
Egli dunque per due giorni si recò di buon mattino al
Tempio, per insegnare pubblicamente e affrontare i suoi avversari davanti al
popolo; erano i suoi ultimi tentativi, gli ultimi lampi di luce con cui cercava
di far breccia nelle tenebre di quei cuori. Alla sera, Gesù con gli Apostoli
tornava a Betania. Si ripeteva la scena delle altre sere: la cena, le notizie
della giornata, i vari commenti. Maddalena e anch’io cercavamo di documentarci
sui dettagli di quanto era accaduto: Giovanni e Matteo erano i nostri referenti
preferiti. Così venimmo a sapere della cacciata dei venditori dal Tempio, delle
diatribe con i suoi nemici, delle parabole, dei discorsi e di altri episodi come
quello del fico maledetto.
Giovanni raccontò anche che Gesù, entrato nel Tempio, si
era fortemente adirato con i venditori lasciandosi andare a espressioni di
rabbia e di violenza. Al ché mi sentii spinto a rettificare l’espressione
dell’Apostolo ricordandogli che Gesù non conosceva né l’ira né la violenza; il
suo intervento, anche se duro e accompagnato da invettive che suonavano
violente, era invece provocato dall’amore verso il Padre e dallo zelo verso la
sua casa, e anche dall’amore verso quelle persone che avevano smarrito il
profondo significato del culto a Dio. Gesù ci aveva detto più volte che
dovevamo imparare da lui, mite e umile di cuore, e che i veri adoratori del
Padre dovevano adorarlo in spirito e verità. Giovanni non s’aspettava il mio intervento,
ma si ricordò del richiamo del Signore quando, chiamandolo “figlio del tuono”, gli disse che non aveva ancora conosciuto lo
spirito di misericordia che doveva animare i figli di Dio. Per Gesù e per gli
Apostoli, furono, quelli, giorni di grande tensione e di dura fatica. Solo il
riposo serale a Betania compensava in parte il dispendio di tante energie.
Arrivò finalmente il mercoledì e Gesù volle passarlo in tutta serenità nella
casa amica, circondato dalle premure e dall’affetto di Marta, di Maria, di
Lazzaro e di tutti noi. Sembrava che volesse prepararsi con particolare
intensità alla celebrazione della sua Pasqua. Fu questa, infatti, l’unica sua
preoccupazione in quella giornata. Per i discepoli, quel mercoledì fu una
giornata di attesa. Aspettavano che Gesù si manifestasse e facesse capire le
sue intenzioni; non sapevano infatti come interpretare il suo comportamento di
quei giorni, soprattutto il senso dei suoi discorsi che alludevano a cose
tremende sulla sorte di Gerusalemme, del Tempio e di tutto il popolo, e anche
il significato dell'ennesimo accenno alla sua morte: “Voi sapete - aveva detto - che
fra due giorni è la Pasqua, e il Figlio dell’uomo sarà consegnato per essere
crocifisso”.
L’unico
a muoversi in quel mercoledì fu Giuda. Aveva un fare misterioso e volle andare
in città col pretesto di alcune commissioni in vista della Pasqua. Tornò verso
sera e appariva profondamente cambiato. Si mostrava rilassato e quasi contento.
Disse di essere stato al Tempio e di avere dato un’occhiata ai prezzi praticati
dai rivenditori che esponevano dentro e fuori l’atrio del Tempio, ma aveva
deciso di non fare spese per adesso, e di rimandare invece a dopo le feste
perché i prezzi sarebbero di certo calati. Del resto, gli agnelli li avevamo
già; si trattava di scegliere il luogo dove mangiare la Pasqua. Nei confronti
di Gesù si mostrava particolarmente espansivo, quasi affettuoso, ma era
evidente che voleva in tal modo coprire il suo tradimento consumato proprio
quella mattina nel suo incontro con i capi del Sinedrio. Gesù, invece, lo
guardava pensieroso e insieme con addolorata benevolenza.
Tutto fu rimandato al giorno dopo, giovedì, primo giorno
degli Azzimi. I discepoli ruppero il silenzio e chiesero a Gesù dove preparare
la Cena pasquale. Gesù chiamò Pietro e Giovanni e li mandò a Gerusalemme; diede
loro indicazioni precise, ma senza far capire qual era la casa dove avrebbero
celebrata la Pasqua. Gli agnelli li avrebbero ricevuti dal padrone di casa,
essi dovevano provvedere al loro sacrificio nel Tempio.
Verso mezzogiorno chiamò in disparte sua Madre e le disse
di partire con Myriam, Salome e Maddalena senza farsi notare, e di recarsi a
casa di Marco dove avrebbero preparato la Cena. Fece loro capire che si
trattava di una Cena pasquale particolare, perciò dovevano chiedere agli ospiti
di preparare nella sala grande addobbandola a festa. Verso sera partimmo anche
noi per Gerusalemme, mentre Lazzaro, su decisione di Gesù, si trattenne a
Betania per celebrare la Pasqua in casa con i suoi familiari.
Durante il percorso Giuda cercava di stare sempre vicino a
Gesù, gli girava intorno come un cagnolino e gli faceva domande sui suoi
programmi futuri. Gesù taceva; camminava raccolto e spedito in testa al
drappello dei discepoli. Noi lo seguivamo in silenzio, in attesa di capire dove
ci avrebbe condotti. Arrivammo in città verso l’imbrunire e solo all’ultimo
momento ci rendemmo conto che era la casa di Marco il luogo dove avremmo
celebrato la Pasqua. Compresi allora che Gesù volle tenere nascosto a Giuda,
fino all’ultimo momento, il luogo della Cena.
1.. GIOVEDI’ SANTO ULTIMA
CENA
Inizio
della Cena: la lavanda dei piedi La casa di Marco offriva ampia comodità di
alloggio; aveva diverse stanze al piano terra, con un comodo cortile interno, e
al piano superiore una grande sala con alcune stanze di servizio che si
potevano utilizzare anche per soggiorno e per alloggio. Quando arrivammo, ci
accolsero tutti con grande gioia. Ci fecero accomodare nelle stanze per
riposarci e risciacquarci in preparazione alla Cena pasquale. Erano le prime
giornate calde di una primavera inoltrata e dovevamo metterci un poco in ordine
prima di andare a tavola.
Maria di Marco ci accompagnò al piano superiore mostrandoci
la sala per la cena. La sala offriva un colpo d’occhio solenne, quasi fastoso: ai
quattro angoli ardevano quattro candelabri accesi che diffondevano una luce
calda e dorata in tutta la sala; nel mezzo erano disposti tre tavoli a forma di
ferro di cavallo, già imbanditi e ornati di fiori; drappi di lino bianco
decoravano le pareti e sontuosi tappeti di tessitura orientale coprivano il
pavimento; tutto ciò che di bello e prezioso c’era in casa di Marco venne
impiegato per adornare la sala. All’esterno dei tavoli erano collocati
tutt’intorno dodici divani, mentre al centro un divano elegantemente rivestito
indicava il posto più importante riservato al capo famiglia, in questo caso a
Gesù. Tutto faceva capire che quella cena pasquale rivestiva un’importanza
particolare; la sala infatti venne salutata dagli Apostoli con esclamazioni di
meraviglia e di compiacimento.
Il numero dei divani, tredici in tutto, era segno evidente
che per me non c’era posto in quella sala; tuttavia mi ero accodato agli
Apostoli ed ero entrato in tempo per ammirare lo splendore di
quell’arredamento, e anche per assistere all’increscioso incidente provocato da
Giuda, il quale, rimasto appiccicato a Gesù tutto il giorno, si era precipitato
ad occupare a tavola il posto più vicino a lui, suscitando la reazione di
Pietro, di Giovanni e di altri, soprattutto di Simone e di Taddeo, i cugini di
Gesù, ai quali Giuda risultava particolarmente antipatico.
Ne seguì un’accesa discussione, accompagnata da frasi
scomposte e da qualche spintone di troppo. La scena non era affatto piacevole,
tanto che Maria, accorsa di fretta, mi prese per un braccio e cercò di
allontanarmi da quel triste spettacolo. Le feci un po’ di resistenza e restai
lì finché vidi Gesù che, senza dire parola, si alzò da tavola, depose il
mantello, si recò all’angolo dov’erano le anfore per le abluzioni, si cinse un
asciugatoio ai fianchi e, preso un catino d’acqua, andò a inginocchiarsi
davanti all’ultimo apostolo; gli slacciò i sandali e cominciò a lavargli i
piedi.
Improvvisamente si fece silenzio in tutta la sala e gli
Apostoli stettero a guardare Gesù, sbigottiti davanti a quel gesto inaspettato.
Gesù era colui che avevano onorato come Maestro, proclamato come Messia e anche
riconosciuto e adorato come Figlio di Dio, e vederlo ora, lì, in ginocchio, a
compiere un servizio che era riservato agli schiavi, fu per loro una
insopportabile umiliazione; questo era decisamente troppo, non avrebbero mai
potuto immaginare un gesto simile.
Anche Maria, che si era fermata dietro di me sulla porta
della sala, presa dalla commozione, volle seguire la scena. Mi voltai verso di
lei, la vidi con gli occhi lucidi e con un tenue sorriso che diceva sorpresa e
gioia. Era la gioia silenziosa di chi si era proclamata “serva del Signore”, e perciò l’unica che in quel momento poteva
capire il gesto di Gesù.
Il silenzio s’era fatto assoluto e imbarazzante; si udiva
solo lo sciacquio leggero dell’acqua nel catino man mano che Gesù passava
dall’uno all’altro degli Apostoli, rimasti confusi e incapaci di una pur minima
reazione. Solo Pietro lo si vedeva ribollire internamente e trattenere a stento
la sua emozione, ma quando Gesù arrivò a lui, la protesta lo travolse e,
balzando in piedi: “Questo no! -
esclamò con forza - Non sarà mai che tu
lavi i piedi a me!”. Come dire: gli altri possono anche sopportare questo
gesto, ma io no! Gesù lasciò passare qualche momento, poi rimanendo in
ginocchio e senza guardare Pietro, con voce grave e severa: “Se non ti laverò i piedi, - disse - non potrai restare a tavola con me, né avrai
parte con me nel mio regno!”. Pietro stette fermo qualche istante come per
cercar di capire in cuor suo il significato di quelle parole, poi lasciandosi
andare sul divano: “Signore, -
esclamò - se è così, non solo i piedi, ma
lavami tutto, le mani e il capo!”.
Gesù non rispose subito, passò a Giovanni e poi a Giuda, il
quale nonostante le proteste degli altri apostoli era riuscito a piazzarsi
vicino a Gesù subito dopo Giovanni. Gesù lo fissò per un momento, poi disse: “Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di
lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri… ma non tutti!”.
Giuda non mosse ciglio, e continuò nel suo sforzo di simulare la sua affettata
attenzione verso Gesù.
A questo punto Maria mi prese per mano: “Figlio mio, - disse - vieni! Andiamo anche noi a mangiare la
Pasqua”, e mi condusse nella stanza attigua dove Marco, le donne e tutti
gli altri si stavano mettendo a tavola per dare inizio al rito pasquale.
L’Eucaristia Ci riunimmo dunque, con
la famiglia di Marco, nella sala accanto al Cenacolo. (…) Nel frattempo gli
inservienti avevano portato in tavola l’agnello arrostito. Recitammo a quel
punto la prima parte della grande preghiera dell’Hallel; seguirono i salmi che
celebrano le lodi di Jahvè, che con braccio forte aveva liberato il suo popolo.
Il capo-tavola prese allora il pane azzimo e lo distribuì; si passò poi a
consumare l’agnello. Seguì la benedizione della terza coppa del vino, la “Coppa
di benedizione”, così chiamata per la preghiera speciale con cui veniva
benedetta.
Incominciammo a recitare la seconda parte dell’Hallel quando
ci giunse dalla stanza di servizio la voce di Giuda che parlava con gli
inservienti. Maria si alzò a andò a vedere se mai ci fosse bisogno di qualcosa.
Mi alzai anch’io e andai con lei. Trovammo Giuda che stava infilandosi il suo
ampio mantello con l’immancabile borsa che teneva sempre con sé. Ci salutò
dicendo che andava a portare qualche aiuto ad alcuni poveri per la loro cena
pasquale. Maria non gli disse nulla. Con lo sguardo triste lo seguì mentre
scendeva al piano inferiore, finché uscì dalla porta. Dietro il Monte degli
Olivi stava salendo la luna, ma era ancora buio, e la sagoma di Giuda si perse
nella notte.
(…) Giovanni mi raccontò poi, quello che, poco prima, era
accaduto. Dopo aver lavato i piedi all’ultimo apostolo, Gesù riprese le vesti e
tornò al suo posto. Gli occhi di tutti erano su di lui. Allora con voce ferma
ma calma e suasiva cominciò: “Avete visto
ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore, e fate bene perché lo
sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi
dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato l’esempio perché come ho
fatto io facciate anche voi”.
In un’atmosfera più distesa cominciò così il rito pasquale.
Tutto pareva rientrato, quando all’improvviso, Gesù uscì con un’affermazione
che lasciò tutti senza fiato: “In verità,
vi dico: uno di voi mi tradirà”. I discepoli si guardarono in silenzio, ma
nessuno se la sentì di fare domande. Il rito continuò, ma gli animi erano ormai
turbati. Consumato l’agnello con la seconda coppa del vino, Gesù ritornò sul
discorso: “Ora si sta compiendo la
Scrittura che dice: colui che mangia il pane con me ha levato contro di me il
suo calcagno”. Poi, fattosi triste e intimamente addolorato, aggiunse: “Uno di voi, che mangia con me, mi tradirà”.
Questa seconda allusione sconcertò gli Apostoli; ciascuno
cominciò a domandarsi se il Maestro si riferisse a lui, e tutti profondamente
addolorati, gli chiedevano: “Sono forse
io, Signore?”. Solo Pietro, che stava alle spalle di Gesù, sentendosi fuori
causa, fece un cenno a Giovanni che si trovava davanti al Signore, perché gli
chiedesse a chi si riferiva. Giovanni allora, ruotando su sé stesso, con un
gesto di affettuosa familiarità si adagiò sul petto di Gesù e gli chiese
sottovoce: “Signore, chi è?”. Gli
rispose Gesù: “Colui al quale darò un
boccone di pane intinto nella salsa”. Staccò un pezzo di pane, lo intinse
e, allungando il braccio, lo porse a Giuda. Il quale, in quel momento, per
distogliere l’attenzione degli altri, domandò anche lui: “Sono forse io, Signore?”. Gesù, guardandolo con grande tristezza: “Proprio tu, - sussurrò - tu stesso lo dici”. E dopo un profondo
sospiro: “Il Figlio dell’uomo -
continuò - se ne va, come sta scritto di
lui, ma guai a colui dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito. Sarebbe
meglio per quell’uomo se non fosse mai nato”. Quel boccone fu per Giuda un
boccone maledetto. Egli non seppe più sopportare la presenza di Gesù, e si alzò
per andarsene. Giovanni ebbe uno scatto repentino verso Giuda: avrebbe voluto
trattenerlo e impedirgli di andarsene, ma Gesù trattenne Giovanni per le spalle
e, rivolto a Giuda, disse: “Va’, quello
che devi fare, fallo presto”.
Gesù, allora, volgendo lo sguardo sugli Apostoli, li fissò
in silenzio uno per uno. Il suo sguardo era intenso e penetrante, ma dolce e
pieno di affetto. Il suo volto si era fatto sereno e disteso; era come se si
fosse levato un macigno dal cuore.
Fu a questo punto che Maria mi spinse nella sala come se
sapesse ciò che sarebbe accaduto. Gesù infatti chiuse gli occhi lasciandosi
andare a un profondo raccoglimento, poi con una voce da cui traspariva
commozione e tenerezza, scandendo le parole, disse: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi prima
della mia passione”. E dopo una pausa continuò: “Vi dico infatti che non la mangerò più finché non si compia il Regno
di Dio”. Stette in silenzio alcuni istanti; aveva davanti a sé una focaccia
di pane azzimo, che egli aveva trattenuto volutamente, e la quarta coppa del
vino.
A quel punto, anziché terminare secondo il rito ebraico il
banchetto pasquale, Gesù volle concludere quella Cena con alcuni gesti che non
entravano nel rituale della cena pasquale, e che lasciarono in tutti una
profonda impressione. Si raccolse di nuovo intensamente per qualche minuto, poi
prese il pane, ne fece dodici pezzi e li depose su un piatto grande, alzò gli
occhi al cielo con una preghiera di rendimento di grazie, e rivolto ai
discepoli disse: “Prendete e mangiatene
tutti. Questo è il mio Corpo sacrificato per voi”. Passò il piatto a Pietro
e agli altri; tutti mangiarono. Matteo, che era l’ultimo in fondo alla tavola,
si trovò con il dodicesimo pezzo avanzato - Giuda infatti se n’era andato - e
non sapeva cosa fare. Gesù allora guardò lui e guardò me; Matteo comprese, mi
portò il pezzo di pane avanzato, che era diventato “Eucaristia”, e consegnò il piatto a Gesù.
Quel gesto mi riempì di gioia indicibile; avrei voluto
gridare la mia felicità e correre ad abbracciare Gesù. Ma quanto stava
accadendo era troppo solenne e qualsiasi gesto diventava incompatibile con
l’intensità del momento. Gesù prese il piatto e versò i frammenti nella coppa
del vino, poi, sollevando leggermente la coppa verso l’alto, rinnovò il
rendimento di grazie e continuò: “Prendete
e bevetene tutti. Questo è il mio sangue, il sangue della nuova Alleanza, che
sarà sparso per tutti in remissione dei peccati”. Fece passare la coppa e
tutti ne bevvero. Restituirono la coppa a Gesù, il quale riprese il rito
facendo l’abluzione delle dita, che non aveva fatto dopo la terza coppa, e
concluse: “Fate anche voi questo, e ogni
volta, fatelo in memoria di me”.
Gesù
aveva pronunciato ogni parola adagio, pacatamente, con una tonalità di voce
profonda e insieme calda e appassionata. Ebbi l’impressione che quelle parole
fossero incandescenti, che cadessero come fuoco nella mia anima. Anche gli
Apostoli avevano seguito tutto con una attenzione fatta di stupore e di attesa
e, senza sapere perché, si sentivano intimamente emozionati. Infatti, pur non
riuscendo a capire fino in fondo quello che stava accadendo, avvertivano che i
gesti di Gesù, nella loro semplicità, nascondevano qualcosa di misterioso e di
grande, qualcosa di intimamente legato alla Pasqua e che non avrebbero dovuto
mai più dimenticare.
Il Dono più grande Eucaristia!
Dono di ogni dono. Gesù, tu stavi per donarti totalmente al Padre, e hai voluto
donarti totalmente a noi. Fino alla fine dei tempi tu sarai in mezzo a noi come
l’Amore misericordioso del Padre e come il Redentore dell’uomo. Ormai non ci
sarà più bisogno dell’agnello pasquale; ogni sacrificio e ogni vittima offerta
dall’uomo non avrà più valore. Sarai tu l’unico Agnello, l’unica Vittima,
l’unico Altare, l’unico Sacerdote: questa stanza è diventata stasera il cuore
del mondo.
L’amore cerca l’unione completa, la comunione
piena. Tu sei una sola cosa col Padre, hai voluto essere, nell’Eucaristia, una
sola cosa con noi. La comunione tra due persone è proporzionale al loro amore:
il tuo amore trascende ogni misura umana, perciò la comunione che desideri
realizzare con noi, trascende ogni comunione umana. Nell’amore sponsale
“saranno due in una sola carne”, nell’Eucaristia saremo due in un solo corpo e
in un solo spirito: tu in me e io in te. Nella Comunione eucaristica tu mi
unisci al tuo corpo e al tuo sangue, mi fai partecipe della tua divinità, della
tua filiazione divina, e anticipi la mia comunione con te nella gloria.
Gesù mio, potremo noi comprendere questa pazzia
d’amore che ti ha preso? Potremo mai misurare le altezze vertiginose del tuo
prodigio, la profondità abissale del tuo dono, l’ampiezza incommensurabile
della tua sete d’amore? Come potremo noi corrispondere a questa tua sete,
lasciarci amare dallo stesso amore che ti unisce al Padre, ed essere anche noi
una sola cosa con te? Gesù mio, come potremo seguirti su questa strada? “Ho
desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi”… Comunica anche a
noi il desiderio ardente di comunione con te, di condividere la tua vita, di
partecipare alla tua Pasqua ed essere anche noi uniti nell’amore, e un giorno
uniti nella gloria!
Gesù, hai voluto che i tuoi Apostoli potessero
rinnovare quello che tu hai fatto questa sera. Perciò li hai fatti partecipi
del tuo sacerdozio, hai chiesto loro di rinnovare lungo i secoli il tuo gesto
di amore, il gesto sacrificale che offre ad ogni uomo la possibilità di
incontrarti come Redentore, e di unirsi al tuo sacrificio, al tuo corpo
sacrificato e al tuo sangue versato, corpo e sangue che danno la salvezza, la
vita eterna, il diritto a risorgere con te nella gloria. Ogni sacerdote
diventerà un altro te stesso e, usando le tue stesse parole, potrà rinnovare su
tutti gli altari della terra il miracolo di questa Cena. I tuoi Apostoli
saranno il fondamento della Chiesa in quanto saranno i sacerdoti della tua Eucaristia.
Dove non c’è Eucaristia, non ci sarà Chiesa. Con l’Eucaristia tu prolungherai
nei secoli, in mezzo a tutti i popoli della terra, la tua presenza: presenza di
salvezza, presenza di Dio che cerca, redime, cammina con le sue creature su
tutti i cammini della terra, che ormai saranno per sempre i cammini del Cielo.
Gesù mio, come hai potuto pensare una cosa
simile? Come hai potuto inventarti una meraviglia come questa, un miracolo così
grande? Solo un amore senza limiti può fare questo, e tu ci hai amati “fino in
fondo”! Solo l’onnipotenza di un Dio innamorato, “impazzito!” per la sua
creatura può arrivare a tanto. Un giorno, su tutta la faccia della terra,
innumerevoli tabernacoli saranno, in mezzo all’umanità, tanti “roveti ardenti”
che parleranno d’amore, tante sorgenti d’Acqua viva, tante fonti di grazia e di
misericordia, luoghi di pace e di riposo. Lì, innumerevoli anime assetate
d’amore troveranno colui che s’è fatto “prigioniero d’amore” per non lasciare
orfani quanti dall’Amore sono nati e all’Amore hanno creduto.
2.. GIOVEDI’ SANTO:
LA PREGHIERA SACERDOTALE
“Signore, mostraci il Padre” Alla conclusione del rito della Cena restava
ancora la recita dell’ultima parte dell’Hallel, l’inno pasquale di
ringraziamento, ma Gesù non mostrava alcuna fretta. Anzi, dava la netta
impressione di intrattenersi con noi come se volesse prolungare quel momento di
intimità e di riposo prima di affrontare la dura battaglia che dava compimento
alla sua missione. Pareva combattuto tra l’urgenza di un grave compito che lo
attendeva e la preoccupazione di non abbandonare gli Apostoli a sé stessi.
Gli inservienti intanto avevano sgombrato le tavole dai
resti della cena. Myriam e Salome, con Giovanna e Maria di Marco, stavano
riordinando le altre stanze; Maddalena invece, preso un piccolo sgabello, si
era messa seduta nell’angolo di fronte a me, appena dentro la porta del
Cenacolo. Maria andava e veniva, sostando ogni tanto sull’entrata della stanza.
Quando gli inservienti terminarono il loro servizio, (…) Gesù guardò lungamente
gli Apostoli, fermando lo sguardo su Giovanni che sedeva davanti a lui, e con
tono caldo, quasi materno e pieno di tenerezza: “Figlioletti miei, - cominciò - ancora
per poco sono con voi. Poi me ne andrò dove voi, per ora, non potete venire”.
Quello sguardo e quelle parole dette in quel modo
commossero Giovanni il quale istintivamente, come un ragazzino spinto da
affettuosa incoscienza, si girò su sé stesso e si abbandonò sul petto di Gesù.
Gesù gli passò leggermente la mano sulla testa e continuò: “Vi lascio dunque un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli
altri come io vi ho amati”. Gesù accompagnò quelle parole con un tono grave
e solenne, come se volesse far capire agli Apostoli che si trattava di una cosa
di grande importanza, e aggiunse: “Da
questo tutti conosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per
gli altri”.
A Pietro però non garbarono le parole di Gesù che aveva
detto di andarsene senza di loro e protestò: “Dove vai, Signore, perché io non possa seguirti ora? Io sono pronto a
dare la vita per te!”. Gesù si voltò leggermente verso di lui: “Pietro, tu darai la vita per me? Ti dico in
verità: questa stessa notte, prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre
volte”. Pietro riuscì a fatica a trattenere la sua reazione e pensò di non
insistere, ma la sua faccia diceva tutto il suo disappunto.
Gesù se ne accorse e cambiando l’espressione del volto, che
divenne più sereno e sorridente: “Coraggio!
- disse - Non si turbi il vostro cuore.
Come vi fidate di Dio, così fidatevi anche di me. Dove io vado, nella casa del
Padre mio, lì vi preparerò un posto e tornerò a prendervi, perché dove sono io
voglio che siate anche voi. Avete capito?... Ora sapete dove vado e conoscete
anche la via”. Alcuni Apostoli si guardarono l’un l’altro in silenzio,
cercando di capire. Pietro invece, appariva assente; si vedeva che la profezia
di Gesù a suo riguardo l’aveva lasciato molto male.
Alle spalle di Pietro stava Tommaso e fu proprio lui a
intervenire per tutti: “Signore, -
disse - non sappiamo nemmeno dove vai,
come possiamo conoscere la via?”. E Gesù di rimando e scandendo le parole: “Io, - disse - sono la Via, la Verità e la Vita. Vi ho già detto che io vado al Padre
e che nessuno va al Padre se non per mezzo di me. Se aveste conosciuto me,
avreste conosciuto anche il Padre mio; ma ora lo conoscete e lo vedete!”.
Sul volto degli Apostoli, perplessità e confusione più di prima. Fu allora la
volta di Filippo, che tra gli Apostoli era il più semplice e spontaneo: “Signore, - disse - mostraci il Padre e non avremo più bisogno di altro!”. Gesù lo
guardò quasi con tenerezza: “Filippo,
- rispose - siete con me da tanto tempo e
ancora non mi conoscete? Non sai che chi vede me, vede anche il Padre mio? Come
puoi allora dirmi: mostraci il Padre? Le parole che io vi dico e le opere che
io faccio, è il Padre che le fa in me. Se avrete questa fede, farete anche voi
le opere che io faccio. E se mi chiederete qualunque cosa, io la farò perché il
Padre venga glorificato in me”.
“Non abbiate paura!” Dopo queste battute di dialogo, gli Apostoli
parvero rassegnati e non parlarono più. Era comunque un silenzio che nascondeva
attesa e riflessione insieme a tanta perplessità. Quali erano in definitiva i
progetti di Gesù? Che cosa intendeva fare il Signore in quei giorni di Pasqua o
nell’immediato futuro? Che senso avevano le cose da lui compiute e i discorsi
che aveva fatto? Una cosa era certa, e lui l’aveva ripetutamente affermata: lo
attendevano momenti difficili e straordinariamente dolorosi, i capi del popolo
e i sacerdoti lo avrebbero preso, maltrattato e - diceva lui - ucciso. (…) In
questa atmosfera di incertezza, di dubbio e di paura, che pesavano come macigni
sull’animo di tutti, Gesù riprese a parlare. Parlava adagio, con voce calda ma
anche vibrante, come se volesse comunicarci sicurezza, fiducia, e soprattutto
difenderci dall’angoscia. Gli Apostoli ascoltavano in silenzio, alcuni
appoggiati alla tavola, altri seduti con le braccia sulle ginocchia o con la
faccia sorretta dal palmo delle mani, mentre Giovanni continuava abbandonato
confidenzialmente sul petto del Signore, ma tutti col desiderio di ascoltare
parole rassicuranti che fugassero i tristi presentimenti che ormai si erano
impossessati del nostro animo.
Proprio per infonderci fiducia, Gesù intercalava ogni tanto
le sue parole con l’invito: “Non abbiate
paura, non si turbi il vostro cuore... Vi ho detto, sì, che vado al Padre, ma
non vi lascerò orfani; io sarò con voi sempre. Quello che vi chiedo è di rimanere
nel mio amore. Rimarrete nel mio amore se osserverete i miei comandamenti. E se
uno mi ama e osserverà la mia parola, anche il Padre mio lo amerà e noi verremo
a lui e prenderemo dimora presso di lui. Non solo, ma io voglio che resti con
voi anche la mia pace. La pace che vi do io, non è quella che vi promette il
mondo. Nel mondo avrete tribolazioni e il mondo si rallegrerà di vedervi
afflitti; anzi il mondo stesso vi odierà e come ha perseguitato me,
perseguiterà anche voi. Il mondo vi odia perché non siete del mondo. Se foste
del mondo esso amerebbe ciò che è suo, ma il mondo non ha conosciuto né me né
il Padre mio. Per questo avrete da soffrire; ve lo dico adesso prima che
avvenga, perché non vi scandalizziate. Ma coraggio! Abbiate pace in me! Io ho vinto
il mondo”. Nel silenzio della sala si udivano soltanto i guizzi delle
lucerne ai lati del Cenacolo. Nel frattempo anche Maria era entrata in sala, in
punta di piedi senza farsi notare, e si era seduta su uno scanno alle spalle di
Gesù.
Gesù riprese a parlare. Tornò a raccomandarci di rimanere
nel suo amore: anche se lui ci lasciava per tornare al Padre, noi dovevamo
continuare a vivere uniti intimamente a lui. Ce lo disse con un’immagine e con
un esempio. L’immagine gli veniva dalla sua esperienza di lavoro nella vigna di
Alfeo, a Nazareth: paragonò sé stesso alla vite e noi ai tralci. Il Padre suo
era l’agricoltore. “Rimanete in me, -
continuò - e io in voi. Come il tralcio
non può far frutto da sé stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non
rimanete in me. Chi rimane in me e io in lui, porta molto frutto, perché senza
di me non potete far nulla... In questo viene glorificato il Padre mio, che voi
portiate molto frutto. Come il Padre ha amato me, così io ho amato voi.
Rimanete nel mio amore. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi,
chiedete quello che volete e vi sarà dato. Vi dico questo perché la mia gioia
sia in voi, e la vostra gioia sia perfetta”.
Detto questo, guardò ancora una volta gli Apostoli,
lentamente e intensamente, poi continuò sullo stesso argomento richiamandosi
all’amicizia: “Non vi ho chiamati servi,
ma vi ho chiamati amici, perché il servo non sa ciò che fa il suo padrone,
mentre io vi ho detto tutto quello che ho udito dal Padre mio. Voi siete i miei
amici che io ho scelto; non siete stati voi, infatti, a scegliere me. E vi ho
scelti per mandarvi nel mondo perché portiate molto frutto, un frutto che
rimanga. Se dunque vi ho chiamati e amati come amici, dovete anche voi amarvi
gli uni gli altri come io vi ho amati. Allora qualsiasi cosa chiederete al
Padre mio, egli ve la darà. Questo dunque è il mio comandamento: amatevi gli
uni gli altri”.
Per la seconda volta Gesù fece come se volesse concludere e
disse: “Ormai è ora di andare; alzatevi e
partiamo di qui”. Ma nessuno si mosse. Nemmeno lui, che rimase fermo al suo
posto in silenzio. In realtà il torrente di pensieri e di affetti che urgeva
dentro di lui non poteva essere fermato, e inoltre la preoccupazione per i suoi
Apostoli, tanto amati ma ancora tanto fragili, alla vigilia della prova più
dolorosa e terribile della loro vita, lo spingeva a prolungare il più possibile
quell’intrattenimento così intimo e così intenso che voleva essere l’addio e
insieme la prova di un amore senza limiti, che non sarebbe mai venuto meno e
che si consegnava alla loro fedeltà.
(…) Gesù, del resto, era ben consapevole che avevamo, noi e
tutti coloro che sarebbero venuti dopo di noi fino alla fine dei secoli, cioè
la Chiesa che egli aveva preparato sul fondamento degli Apostoli, tutti avevamo
bisogno di un supplemento di grazia, di una forza che non poteva essere nostra,
ma che doveva venire solo dall’alto, tutta divina e soprannaturale.
Gesù guardò ancora una volta uno a uno gli Apostoli e passò
leggermente la mano sulla testa di Giovanni; il suo sguardo possedeva
un’intensità e una tenerezza nuove, mai viste prima di allora. Comunque quel
gesto mi riempì di invidia; senza accorgermene mi alzai quatto quatto dal mio
angolo e quasi strisciando lungo le pareti mi portai dalla parte dove era
Maria, mi accucciai vicino a lei e adagiai il mio capo sulle sue ginocchia. Era
per me come una rivincita, una sorta di compensazione. Maddalena, che si
trovava vicino all’ingresso del Cenacolo, seguì il mio esempio e si avvicinò
anche lei a Maria appoggiandosi alla sua spalla. Eravamo all’altezza di Gesù e
potevamo seguire senza fatica le sue parole.
Egli allora cominciò a parlarci dello Spirito Santo.
Avevamo bisogno di Lui, della sua luce per comprendere le cose divine che Gesù
ci aveva rivelato, nonché della sua forza per superare le prove e le tentazioni
del maligno, e avevamo bisogno della sua assistenza per essere testimoni
dell’amore di Dio e delle sue opere davanti al mondo.
“Se dunque mi amate - riprese Gesù - osserverete i miei Comandamenti e io
pregherò il Padre che vi mandi un altro Paraclito, affinché sia con voi sempre,
lo Spirito di Verità che il mondo non può ricevere perché non lo vede né lo
conosce. Voi lo conoscete perché dimora presso di voi e sarà in voi. Vi ho
detto che io vado da Colui che mi ha mandato e per questo la tristezza ha
riempito il vostro cuore. Ma non abbiate timore, la vostra tristezza si
cambierà in gioia. La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la
sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più
dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora
siete nella tristezza, ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e
nessuno potrà togliervi la vostra gioia. Io vi dico la verità: è bene per voi
che io vada, perché se non vado non verrà a voi il Paraclito. Se invece me ne
vado, lo manderò a voi. E quando egli verrà, confuterà il mondo riguardo al
peccato, perché non crede in me, alla giustizia perché vado al Padre e non mi
vedrete più, al giudizio perché il Principe di questo mondo è già stato
giudicato”. “Molte cose ho ancora da
dirvi ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà
lo Spirito di Verità, Egli vi guiderà alla Verità tutta intera, perché non
parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e annunzierà le cose future.
Egli mi glorificherà perché prenderà del mio e ve lo annunzierà”.
“Ecco, ormai viene
l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto suo e mi
lascerete solo. Ma io non sono solo perché il Padre è con me. Vi ho detto che
in questo mondo avrete da soffrire, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!”.
La
preghiera sacerdotale Gesù scandì le ultime parole con forza, facendo
capire che intendeva concludere il suo intrattenimento con noi. Si alzò infatti
dal divano, si pose seduto, appoggiò i gomiti sul tavolo incrociando le dita
sotto il mento, poi alzò gli occhi verso il cielo e con voce appassionata, ma
insieme calma e serena: “Padre, -
cominciò - è giunta l’ora”.
(…) Tutti noi eravamo abituati a sentire Gesù rivolgersi
direttamente al Padre; lo aveva fatto tante volte, ma sempre con un
atteggiamento di subordinazione. Quella sera, invece, l’atteggiamento e il tono
della voce erano molto diversi. Certamente erano diverse le circostanze e
l’ambiente, se pensiamo a tutto quello che era accaduto in quella Cena: la
scenata umiliante del litigio fra gli Apostoli, il gesto scioccante della
lavanda dei piedi, la denuncia del traditore, il rito commovente
dell’Eucaristia, la consegna del suo testamento riguardo all’amore fraterno e
altre intense raccomandazioni… tutto questo aveva creato un’atmosfera talmente
carica di emozione e di stupore che tutti noi eravamo come intontiti e confusi.
Ma quelle parole di Gesù, il suo dire ispirato e appassionato, il suo
atteggiamento che appariva di uguaglianza, quasi alla pari, con il Padre, erano
completamente nuovi. Quella preghiera era fatta di affermazioni assolute e le
sue petizioni erano comandi: “Padre, ti
chiedo… voglio…”. Chiedeva per sé la gloria stessa del Padre, e per gli
Apostoli la forza di restare nel mondo come testimoni e continuatori della sua
missione di salvezza. Chiese con forza, come se fosse la cosa che più gli stava
a cuore, l’unità di tutti coloro che sarebbero venuti lungo i secoli e
avrebbero creduto in lui.
(…) “Io ho fatto conoscere a loro, (agli Apostoli) il tuo nome e lo farò conoscere, affinché
l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro”. Gesù concluse
con queste parole la sua preghiera al Padre e stette qualche istante in
silenzio. Poi si mosse e si staccò dal tavolo; fu come se ritornasse in mezzo a
noi da un lungo viaggio, da un mondo lontano, come se si svegliasse da
un’estasi immensa. Si alzò dal divano e intonò l’ultima parte dell’Hallel a
conclusione della Cena Pasquale. Quindi si infilò il mantello e: “Andiamo via di qui, - disse - si è fatto tardi”. Passando davanti a
sua Madre, si fermò qualche istante. Si guardarono in silenzio, come sempre.
Maria gli prese il volto fra le mani e lo baciò sulla fronte con insolita
tenerezza; poi gli assestò accuratamente il mantello sulle spalle e lo
accompagnò alla porta. Egli si mosse deciso, con l’aria di chi ha molta fretta
e, senza salutare più nessuno, uscì seguito dai discepoli.
Gli ultimi della comitiva furono Simone e Taddeo che si
intrattennero un momento con Myriam e Salome. Taddeo chiese alcune coperte,
dovendo passare la notte nell’Orto degli Olivi dove Gesù negli ultimi tempi era
solito recarsi; Simone invece, ricordando un avvertimento di Gesù che invitava
a premunirsi in vista di momenti difficili, prese dal ripostiglio due spade e
volle portarle con sé.
Marco, che era presente: “Vengo anch’io con voi!”, esclamò, e si attaccò al braccio di
Taddeo. La madre di Marco e la Madonna si guardarono per consultarsi su che
cosa fare. Allora Maria si volse verso di me, e con cenni del capo mi fece
intendere che dovevo andare anch’io con loro e prendermi cura di Marco. E così
uscimmo di casa insieme con gli Apostoli.
3. GIOVEDI’ SANTO NELL’ORTO DEGLI OLIVI
Nell’orto
degli olivi Era il plenilunio di primavera. La luna
splendeva ormai alta nel cielo e illuminava tutta la città con i monti che la
circondano; all’orizzonte s’intravedeva il riverbero notturno del deserto.
Camminammo senza accendere lucerne e cercammo di muoverci in silenzio, evitando
ogni rumore. Davanti a noi, non molto lontano, appariva, ancora illuminato
all’interno, il palazzo di Caifa. Noi prendemmo la direzione opposta seguendo
la scorciatoia che dalla città alta scende verso il Cedron; è una lunga
gradinata che porta al quartiere di Siloe. Di lì, attraverso la Porta della
Fonte, uscimmo dalla città. Non incontrammo anima viva; tutto il quartiere
sembrava deserto.
Oltrepassato l’alveo secco del torrente, Gesù rallentò il
passo e tutta la comitiva degli Apostoli poté ricomporsi. Quando li ebbe tutti
vicini, Gesù ribadì un avvertimento che aveva espresso durante la Cena, subito
dopo che Giuda se n’era andato: “Ricordate
che sta scritto: Percuoterò il Pastore e le pecore saranno disperse. Voi tutti
sarete messi alla prova per causa mia questa notte, ma dopo la mia risurrezione
vi attenderò in Galilea”.
Pietro che ormai non si allontanava di un passo da Gesù,
come fosse una guardia del corpo, gli si pose davanti e, guardandolo con
fierezza: “Signore, - gli disse - anche se tutti si scandalizzeranno di te, io
non ti lascerò mai!”. Gesù, mettendogli una mano sulla spalla: “Proprio tu, Pietro, - gli disse - prima dell’alba, prima che il gallo canti
due volte, mi avrai rinnegato tre volte. Io però ho pregato per te, perché non
venga meno la tua fede e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli”.
Questa insistenza di Gesù, per quanto affettuosa, anzi proprio per questo,
diede fastidio a Pietro, il quale però, anche se con minore convinzione, tornò
a protestare: “Io ti difenderò, anche se
dovessi morire con te!”. “Anche noi!”,
risposero in coro gli altri. E subito si fece largo Simone: “Ecco qui, ho portato con me due spade!”.
Gesù lasciò cadere il discorso, e aggiunse mestamente: “Basta così!”, e riprese il cammino.
Arrivammo in breve all’entrata del Getsemani, l’Orto degli
Olivi. (…) Gesù, entrato nell’orto, ordinò ai discepoli di sistemarsi dove
potevano per passare la notte; egli sarebbe andato più in là a pregare. Ma già
appariva tremante, con forti brividi che lo scuotevano tutto, dalla testa ai
piedi. Gocce di sudore freddo gli imperlavano la fronte. Allora, come se fosse
preso da un panico improvviso, chiamò Pietro, Giacomo e Giovanni: “Voi, - disse - venite con me. Ecco, un’angoscia mortale sta schiacciando la mia anima.
Statemi vicino e vegliate con me in preghiera per non soccombere nella prova!”.
Così dicendo, prese Pietro da una parte e Giacomo dall’altra, e aggrappandosi
alle loro spalle si allontanò alcuni metri tra gli olivi, strisciando i piedi
nella terra come se improvvisamente gli fossero venute meno tutte le forze. Il
suo respiro s’era fatto ansimante, e ad ogni passo sembrava che crollasse al
suolo. I tre discepoli che lo accompagnavano non sapevano cosa dire; con fatica
lo sorreggevano portandolo quasi di peso. Arrivati presso un olivo, Gesù ebbe
come un ritorno di forze: con uno sforzo imperioso si staccò da loro, proseguì
per alcuni metri e infine si prostrò in ginocchio con la testa penzoloni fino a
terra. Intanto gli Apostoli, quelli che potevano starci, avevano preso posto
nella capanna di frasche dov’erano conservati gli arnesi di lavoro, mentre io,
Marco e Taddeo, trovammo posto più in là nella grotta scavata nel monte dove si
trovava il frantoio delle olive. (…)
Passò qualche tempo, non saprei quanto, e cominciai a udire
come dei lamenti. Erano gemiti lunghi, impregnati di dolore; venivano a
intervalli con intensità crescente. Erano gemiti che mi riempivano l’anima di
angoscia, come se qualcuno mi chiedesse disperatamente aiuto. Dovetti alzarmi e
uscire dalla grotta. Quei lamenti provenivano dalla parte del giardino dove
s’era inoltrato Gesù. Fissai lo sguardo tra gli olivi e alla luce della luna
intravidi la figura dei tre Apostoli che Gesù aveva preso con sé: Pietro stava
seduto sotto un olivo col capo appoggiato al tronco; Giacomo teneva la testa
penzoloni fra le ginocchia e Giovanni giaceva su un fianco disteso per terra.
Quando i lamenti cessarono, vidi l’ombra di Gesù che si
muoveva barcollante in direzione degli Apostoli. Si avvicinò a Pietro e lo
scosse per un braccio. Gli Apostoli si alzarono di scatto e Gesù parlò con
loro. Poi si allontanò di nuovo di qualche metro, finché lo vidi crollare
bocconi per terra e strisciare carponi verso uno spuntone di roccia. Io non
sapevo che fare; mi tranquillizzai quando vidi i tre Apostoli che, in
ginocchio, cercavano di vegliare. Pietro non dimenticherà per tutta la vita
quella supplica accorata che nel dormiveglia era riuscito a cogliere e che gli
era penetrata dentro l’anima: “Padre,
allontana da me questo calice!... Tuttavia, non ciò che voglio io, ma ciò che
vuoi tu”. Pensai, vedendoli, che i tre discepoli avrebbero vegliato accanto
a Gesù; rientrai perciò nella grotta e mi addormentai. (…) Non so per quanto
tempo rimasi assopito; ricordo che nel sonno udii grida disperate che mi
giungevano da lontano. Ma poi mi resi conto che non sognavo; quelle grida erano
vere, e venivano di là, dal giardino degli Olivi. Balzai nuovamente fuori dalla
grotta e stetti in ascolto. Erano urla strazianti che laceravano il silenzio
della notte. Cercai di capire, ma riuscii a distinguere soltanto una parola: “Abbà! Abbà! Abbà!…” - “Padre mio! Padre mio! Padre mio!”. I
tre erano di nuovo crollati nel sonno. Quelle grida mi mettevano i brividi, e
un nodo di tristezza mi saliva alla gola. Ma non riuscivo a piangere, come non
riuscivo a capire perché quelle urla cadessero inascoltate nel silenzio
notturno come nel vuoto. Anche la luce della luna inondava di indifferenza
tutte le cose. Tutto il creato taceva: non un soffio di vento, non un grido di
animale, non uno stormire di fronde. E anche i tre Apostoli, laggiù nell’ombra,
immobili.
(…) Finalmente una luce tenue, come un nimbo, si accese tra
gli olivi in fondo all’orto. Era una luce non naturale, una luce sovrumana. In
lontananza, vidi la figura di Gesù, prostrato a terra, con le mani appoggiate
alla roccia. A quella luce cessarono le urla, e i gemiti si fecero flebili,
divennero come sospiri sempre più distesi e rarefatti, finché nel giardino
tornò il silenzio. Gesù, lentamente e faticosamente, si drizzò sulle ginocchia
e si rivolse verso quella luce come se dialogasse con una presenza invisibile.
Qualcosa in quel momento attraversò l’aria, sembrava un sospiro che sciogliesse
un incubo; era come se le cose si riposassero dopo un’immane fatica.
Gesù, infatti, uscì dal dialogo con quella luce
visibilmente cambiato. Capii che una creatura celeste, forse un angelo, era
venuto a confortarlo. Era certamente la risposta del Padre che lo strappava ai
morsi del Maligno e lo liberava dall’angoscia. Lo vidi infatti alzarsi senza i
brividi che prima lo scuotevano tutto; si sedette sulla roccia con la testa fra
le mani come per riflettere su quanto aveva provato. Sembrava uno che si
riposasse per riprendere le forze dopo un duro ed estenuante combattimento.
Solo allora mi resi conto che il silenzio nell’aria era
finito. Uno strano rumore veniva dal sentiero che dal torrente Cedron portava
al Getsemani. Erano i passi di una comitiva che con fiaccole e armi stava
dirigendosi verso il giardino. Gesù intanto si era alzato, s’era scrollato da
dosso terra e polvere ed era tornato ai suoi Apostoli. Era ancora lui, quello
di sempre, ritto, solenne, consapevole, padrone della situazione. Accanto a me
vidi Taddeo ancora avvolto nella sua coperta che cercava di capire che cosa
stava accadendo. Quando vide tutta quella gente con torce, spade e bastoni
ammassata disordinatamente all’entrata del giardino, scese di corsa verso la
capanna dov’erano alloggiati gli Apostoli che nel frattempo erano usciti dai
loro giacigli, confusi e costernati, e insieme con loro si diresse verso Gesù.
Io non riuscii a muovermi; rimasi fermo a guardare. Le urla di quella notte
continuavano ad echeggiare drammaticamente dentro di me, e una specie di incubo
immobilizzava la mia mente che si sentiva prigioniera di un’angosciosa
impotenza.
la
solitudine di Dio Gesù mio!
Chi mai avrebbe potuto vegliare con te in quella notte? Chi mai avrebbe potuto
pregare la tua preghiera, unirsi alla supplica straziante che dal tuo cuore
saliva verso il Cielo? Quale creatura avrebbe mai potuto aiutarti nella
titanica agonia che ha schiacciato la tua anima fino a farti trasudare rivoli
di sangue? E quale essere umano poteva farti compagnia nell’abisso della tua
tristezza, o sopportare il mare sconfinato della tua angoscia? Tu, invece, hai
voluto cercare aiuto e sei venuto a noi a mendicare anche solo una parola, uno
sguardo, un silenzio…; e noi non abbiamo saputo darti altro che sonno, torpore,
apatia.
Gesù mio, come hai potuto farlo? Può
l’Onnipotenza di Dio cercare aiuto nella debolezza dell’uomo? Può la Sapienza
eterna di Dio chiedere comprensione dove non c’è intelligenza per capire? E può
“Colui che è”, invocare sostegno da “colui che non è?”.
Gesù mio, chi mai poteva pensare che in quel
“verme della terra” che strisciava nella polvere c’era il Figlio diletto del
Padre? Chi mai poteva immaginare che in quelle urla che straziavano i cieli
notturni c’era la voce del Verbo eterno che ha creato la terra e tutto
l’universo? No, Gesù mio, no! Non potevi venire da noi, perché noi non potevamo
venire da te. Eri solo nel deserto quando hai sconfitto il nemico infernale, e
dovevi restare solo questa notte nel Getsemani, quando il maligno è tornato a
insidiarti. Noi non lo sapevamo, né abbiamo potuto vederlo, ma esso era lì,
accovacciato davanti a te; ti chiedeva di non dare la tua vita per esseri
spregevoli e indegni come noi, di non accettare la croce che avrebbe
significato la tua sconfitta di fronte al mondo, o semmai di riscattarci con la
spada; avevi legioni di angeli pronti per farti trionfare sui tuoi nemici e
mostrare al mondo la tua forza. E tu invece hai voluto mettere in guardia anche
noi, perché Satana sarebbe venuto a vagliarci come il grano.
Ma per noi non c’era bisogno della tentazione,
a tentarci bastavano la nostra miseria e la nostra debolezza. Del resto, sapeva
bene il Maligno che, percosso il pastore, anche le pecore sarebbero andate
disperse. Satana è venuto per te, con te esso aveva un conto ancora aperto ed
era tutto da saldare. Esso è venuto ad afferrare in una morsa la tua umanità
usando le armi più subdole della sua astuzia e della sua rabbia per impedirti
di compiere la volontà del Padre. Egli, fin da principio, è stato il “rifiuto”;
il suo nome è “ribellione”. E noi gli avevamo creduto. Perciò solo tu potevi
dire: “Ecco, io vengo o Padre, a fare la tua volontà”. La tua solitudine è
dunque la conseguenza del tuo essere Figlio di Dio, e la tua angoscia è
conseguenza del tuo farti figlio dell’uomo: il ribelle. E tu dovevi sconfiggere
la ribellione con l’obbedienza.
Ecco perché in quella notte eravamo tutti lì,
non solo con te, ma dentro di te. Tu eri in quel momento tutta l’umanità
dolente e straziata, tutta l’umanità triste e malvagia: l’umanità peccatrice.
In quel momento tutti i Caino che hanno ucciso, tutti i Giuda che hanno
tradito, tutti gli spergiuri che hanno bestemmiato, tutti gli Erode che hanno
sterminato gli innocenti erano lì e pesavano su di te. In te si sono ammassati
gli abitanti di Sodoma e Gomorra, gli abitatori di Ninive e di Babilonia, gli
inquilini delle galere di tutti i tempi. Tu eri l’erede di tutti i Faraoni che
hanno oppresso i popoli, di tutti gli Epuloni che hanno disprezzato i poveri,
di tutti gli schiavisti che hanno venduto come merce da pochi soldi milioni di
fratelli. Tutto ciò che è violenza, tradimento, spergiuro, infedeltà, vendetta,
ingiustizia e menzogna era lì, scritto sulle tue mani, sulla tua fronte, sui
tuoi occhi, su tutto il tuo corpo, nel tuo cuore. Tutte le madri che hanno
soffocato nel grembo le proprie creature, tutte le prostitute che hanno
mercificato il proprio corpo, tutti gli adulteri che hanno tradito e infangato
l’amore, tutte le Erodiadi che hanno sedotto e chiesto la testa dei Profeti di
Dio: un carico immenso di vergogna pesava sulle tue spalle. Su di te l’orrore dei
lager, dei forni crematori, dei gulag, delle foibe, dei campi di sterminio,
delle pulizie etniche. I Giacobini di tutti i tempi, tutti i Napoleoni che
hanno insanguinato del loro orgoglio le contrade della terra, tutti i potenti
del mondo che hanno riempito gli arsenali di bombe atomiche, e tutta la brutale
crudeltà di quanti hanno inventato i capestri, i roghi, la ghigliottina e i più
raffinati strumenti di tortura, tutti costoro con tutti i malvagi della terra,
erano lì con te in quella notte, portavano scritto il tuo nome. Gesù, come hai
potuto caricarti di tante iniquità? Come hai potuto mentire al mondo intero,
ingannare, tradire, opprimere con leggi perverse i popoli della terra? Perfino
i corruttori di bambini, i profittatori d’innocenti, gli oppressori dei deboli:
tutti col tuo nome! Tu eri in quella notte davanti al Padre tutto il male del
mondo, tutte le iniquità della terra!
Gesù mio! Chi poteva reggere a questa marea di fango e di
putridume? Chi poteva trasformare questa infinita e tragica ribellione
dell’uomo in una docile obbedienza all’amore del Padre? Ed ecco che tu sei
sceso nell’abisso e ti sei fatto maledizione per ottenerci misericordia!
E così hai sconfitto il maligno: l’umiltà e l’obbedienza
sono incompatibili con la superbia e la ribellione. Tu, infatti, pur essendo
Dio, ti sei annientato prendendo la natura di servo, divenendo simile a noi
peccatori, e ti sei umiliato facendoti obbediente “fino alla morte, e alla
morte di croce”.
Gesù mio! Ecco perché il creato è rimasto
immobile questa notte, impietrito e muto davanti alla tua agonia; nessuna
creatura era in grado di un gesto, di una parola, di un segno. Nessuno avrebbe
potuto dirti nulla, né darti nulla. E così i cieli e la terra resteranno i soli
testimoni del tuo “Si” al Padre, e l’Angelo Michele, che ha preso il posto del
Maligno, ti ha portato dal cielo il conforto del Padre: “Tu sei il Figlio mio
diletto!”.
Gesù mio, quel tuo “fiat” mi richiama alla
memoria l’altro “fiat” che oltre trent’anni prima una fanciulla quattordicenne
consegnò all’Angelo del Signore: il ”fiat” di tua madre che seppe dire: “Sono
la serva del Signore, si compia in me la volontà di Dio”. In questa notte fu
lei l’unica creatura che ha saputo vegliare con te; l’unica che ha potuto
unirsi alla tua orazione e alla tua agonia. Nel Cenacolo, che ha visto il tuo
supremo dono d’amore, Maria, raccolta in preghiera, ha vegliato con te con
gemiti di silenzio e con le lacrime del cuore, ha partecipato alla tua immane
agonia, ha gridato anche lei con tutte le forze della sua anima: “Abbà! Abbà!
Abba!” - “Sì, Padre mio! Si, Padre nostro!”. Lei nel Cenacolo e tu nel
Getsemani: un'unica preghiera, un unico grido, un unico “fiat”!
Gesù mio, non meravigliarti di noi; non dei tre
intimi che hai voluto accanto a te, non degli altri Apostoli, né di nessun
altro di noi. Possiamo solo contemplare attoniti e impotenti, come l’intero
universo, la tua agonia, e dirti, questo sì, senza limiti ed eternamente:
“Grazie! Grazie della tua passione e della tua orazione, grazie della tua vittoria,
del tuo dolore e del tuo amore!”.
E grazie anche a te, Madre mia, Madre del
dolore e Madre dell’amore. Forse solo la Maddalena ha saputo vegliare con te,
ma senza capire e senza sapere. Ha vegliato amando, perché l’amore è l’unica
cosa che Maddalena conosce, l’unica cosa che muove il suo cuore. Ed è l’unica
cosa che anche noi possiamo imparare vivendo accanto a te, perché è l’unica
strada che alla fine può ricondurci al Padre.
4.. GIOVEDI’ SANTO:
CATTURA
E PROCESSO CONTRO GESU’
La
cattura di Gesù L’irruzione della soldataglia nell’orto era
stata scomposta e violenta. Intravidi Giuda che precedeva tutti e cercava di
contenere l’impazienza della ciurma, ma inutilmente. Allora come se fosse preso
dalla fretta di concludere quella faccenda al più presto, si diresse
decisamente verso il gruppo degli Apostoli che nel frattempo si erano stretti
attorno a Gesù. Dietro alla soldataglia, a qualche metro da essa, seguivano in
silenzio e a ranghi composti alcune decine di soldati romani equipaggiati di
tutto punto e preceduti da un tribuno. Allora, cercando di non farmi notare, mi
spostai tra gli olivi quel tanto che mi permise di assistere di lato allo
svolgersi degli avvenimenti.
Vidi Gesù staccarsi dagli Apostoli e andare incontro a
Giuda. Giuda gli mise le mani sulle spalle e lo baciò. La soldataglia si era
fermata in silenzio. Allora anche Gesù pose le mani sulle spalle di Giuda, lo
fissò intensamente e gli parlò. Non intesi bene le parole, ma vidi Giuda
staccarsi da Gesù come se volesse liberarsi da una situazione imbarazzante e
scomoda; si voltò verso la folla con cenni del capo e cominciò ad allontanarsi
adagio, come se non volesse farsi notare, girò al largo e mi passò vicino senza
avvedersene. Lo chiamai: “Giuda!”. Si
voltò senza parlare e senza fermarsi; quando mi vide allungò il passo e si
diresse poi, correndo, verso l’uscita dell’orto; disparve in fondo al sentiero,
nel buio.
Quando tornai a guardare Gesù, vidi la folla ammucchiata
per terra e Gesù solo, ritto in mezzo a tutti, quasi solenne nella luce della
luna ormai alta nel cielo. Intanto, faticosamente, alcuni della turba
cominciarono ad alzarsi e, una volta in piedi, si lanciarono per circondare
Gesù. Ma Gesù con un gesto imperioso della mano li fermò e con voce ferma
chiese: “Chi dunque cercate?”. Si
levò una voce nel mezzo: “Gesù di
Nazareth!”. Tenendo sempre la mano distesa, Gesù fece un passo deciso in
avanti gridando: “Vi ho già detto che
sono io!”. Quelli più vicini a lui indietreggiarono improvvisamente e
caddero su quelli che stavano dietro ammucchiandosi di nuovo per terra.
Fu allora che Pietro corse vicino a Gesù brandendo una
spada e, senza por tempo in mezzo, vibrò un colpo alla cieca che fortunatamente
andò fuori misura, colpendo all’orecchio l’uomo che stava prono ai suoi piedi.
Ma Gesù, prontamente, gli fermò il braccio mentre accorrevano anche gli altri
Apostoli con un'altra spada. Si voltò verso di loro, e con la consueta pazienza
che in quella circostanza parve una specie di remissività: “Mettete via quella spada! - disse - Pensate forse che io non possa pregare il Padre mio che mi darebbe
subito più di dodici legioni di Angeli?”. Poi si chinò verso il ferito e lo
risanò.
Quell’uomo allora si alzò e con lui tutti gli altri. Gesù
scandendo le parole con tono imperativo: “Se
cercate me, - disse - lasciate che
costoro se ne vadano”. E con un cenno della mano fece segno agli Apostoli
di andarsene. Poi continuò: “Siete venuti
con spade e bastoni come se fossi un brigante. Tutti i giorni stavo in mezzo a
voi insegnando nel Tempio, e non mi avete preso. Adesso però è il momento; è la
vostra ora, l’ora delle tenebre”. Così dicendo incrociò le mani e le stese
verso di loro. C’era tanta nobiltà e fierezza in quel gesto. A me parve che
volesse dire: non siete voi a sopraffarmi; sono io, in obbedienza al Padre, che
mi consegno a voi.
A quel gesto e a quelle parole, gli Apostoli rimasero
costernati. Erano abituati a vedere Gesù dominare con autorità tutte le
situazioni, e uscire indenne da ogni pericolo. Quella sua acquiescenza, quella
volontaria capitolazione, erano dunque completamente inspiegabili. Forse anche
lui, il Maestro, si era reso conto che tutto era finito? Perciò, presi dal
panico, in un istante scomparvero disperdendosi nell’orto, chi dietro agli
olivi, chi guadagnando di corsa l’uscita del Getsemani.
I soldati romani stettero a guardare immobili, lasciando
agire gli sgherri dei Sommi Sacerdoti formati prevalentemente dalle guardie del
Tempio. Legarono Gesù che si lasciò fare senza opporre resistenza, e si
avviarono tutti verso l’uscita del giardino. I soldati romani seguirono la
ciurma senza preoccuparsi di altro.
Io ero rimasto dietro ad un grosso olivo col cuore in gola,
impietrito dall’impotenza. Stavo per scoppiare in pianto, pressato da un misto
di rabbia e di dolore, quando sentii dietro di me il respiro affannoso di
qualcuno. Mi voltai di scatto: “Ah! Sei
tu?”, mormorò Filippo con la voce stravolta. Il sudore gli strisciava sulla
fronte luccicando al chiarore della luna. “Fermiamoci
ancora un poco, finché non si saranno allontanati”, aggiunse, scosso tutto
da brividi.
Quando i passi della turba ci sembrarono sufficientemente
lontani, e la luce delle torce riverberava tra gli alberi del fondovalle,
uscimmo dal nostro nascondiglio e ci avviammo verso la capanna. Arrivati nei
pressi dell’uscita dell’orto, scorgemmo qualcosa di simile a un piccolo
fantasma che dal sentiero saliva di corsa verso di noi. Ci fermammo
preoccupati; mi sentii chiamare per nome. Era Marco che correva ansimante verso
di noi.
Era spoglio e tremava di freddo e di paura. S’era svegliato
di soprassalto al rumore dei soldati che lasciavano il Getsemani e, non vedendo
nessuno, s’era messo così come si trovava, avvolto nella sua coperta, a
pedinare la comitiva giù dal sentiero. I soldati, insospettiti, si fermarono
per prenderlo, ma egli, con uno scatto, sgusciò fuori dalla coperta,
lasciandola nelle loro mani, e fuggì precipitosamente. Ricorda di aver sentito
due grasse risate e nient’altro. Lo avvolsi nel mio mantello e con un sospiro
di sollievo: “Sia ringraziato il Cielo!” esclamai,
pensando al grosso pericolo scampato e alla mia responsabilità.
In quel momento comparvero Pietro e Giovanni che ci
chiesero notizie dell’accaduto. Pietro mi consigliò di accompagnare Marco a
casa, e di dire agli altri discepoli di riunirsi tutti nella casa di Marco,
dov’erano Maria e le altre donne. Lui e Giovanni sarebbero andati in cerca di
Gesù.
Aspettammo dunque che si facessero vivi gli altri discepoli
che apparvero l’uno dopo l’altro: Matteo, Andrea, Giacomo e Tommaso. Avevano
timore di parlare e di chiederci notizie; perciò raccolti i mantelli e le altre
cose, ci mettemmo in cammino procedendo con cautela e in silenzio; in realtà
eravamo sopraffatti dalla paura e umiliati.
Risalimmo alla cittadella di Sion e bussammo alla porta
della casa di Marco. Quando entrammo ci accolsero tutti con sospiri di
sollievo, ma la casa era tutta in subbuglio. Simone, Taddeo e Giacomo erano
fuggiti dal Getsemani prima dei soldati, e avevano portato la brutta notizia
alle donne e agli altri di casa. Intanto Maria ci aveva preparato una bevanda
calda che avesse anche un’azione sedativa. Restammo così in attesa di notizie.
Il pianto di Pietro “Madre mia, come
narrare quella notte, la più lunga, la più incerta, la notte più sofferta che ho
passato accanto a te?” Tutti noi, uno dopo l’altro, ci siamo ritrovati nel
Cenacolo, storditi e smarriti, ma finalmente al sicuro, scampati da tremendi
pericoli, fuori da una bufera che imprevedibilmente e in poche ore si era
abbattuta su di noi. Mancavano Pietro e Giovanni, ma sentivamo che prima o poi
sarebbero tornati. Mancava soprattutto Gesù. Che ne era di lui? Dove lo avranno
portato? Che cosa gli avranno fatto?
Si erano sentite voci e rumori lassù, verso la casa di
Caifa. Era chiaro che lo avevano portato in casa dei Sommi Sacerdoti. Erano
stati loro, del resto, a organizzare tutto. A guidare, infatti, le guardie
c’era anche lui, Malco, il servo fidato di Caifa, quello al quale il Sommo
Sacerdote affidava sempre gli incarichi più delicati e di fiducia. Era un uomo
ottuso, di poca intelligenza, ma fanaticamente attaccato al suo padrone. Così
ce l’aveva descritto molte volte Nicodemo; dovevamo guardarci da lui.
Salome era la più inquieta. Insisteva nel chiedere ad
Andrea e agli altri notizie del figlio Giovanni. Quel benedetto ragazzo è
sempre stato così impulsivo, imprudente, quasi sconsiderato! Sì, conosceva
l’ambiente del Sommo Sacerdote, aveva amici e compagni di scuola in
quell’ambiente, ma non era quello il momento di mettersi nei guai.
Intervenne a quel punto, con la consueta, amabile
discrezione, Maria; prese Salome in disparte: “Non inquietarti, figlia mia, - cominciò - Giovanni è giovane e impulsivo, ma non è uno sprovveduto; è un ragazzo
intelligente, e poi Gesù non permetterà che cada in qualche pericolo. Non gli
succederà nulla. Invece - e così dicendo ci guardò tutti con volto velato
di sofferenza - mettiamoci a pregare”.
Ci riunimmo tutti nella sala del piano inferiore, e Maria
cominciò prendendo dai Salmi la “Preghiera dei pericoli”: “Signore, quanti sono i miei oppressori! Molti contro di me insorgono.
Molti di me vanno dicendo: neppure Dio lo salva!. Ma tu, o Signore, sei la mia
difesa, tu sollevi il mio capo…”. Non tutti conoscevamo le invocazioni di
quei Salmi, ma sentivamo che quelle suppliche si adattavano perfettamente alla
nostra situazione, e soprattutto a quella di Gesù, ed entravano perciò nel
cuore di tutti noi.
Maddalena, che fino allora non aveva parlato né ascoltato
e, chiusa nei suoi pensieri, aveva girovagato continuamente per la casa, come
se volesse dominare l’impellente desiderio di fuggirsene via in cerca del suo
Maestro, si sedette vicino a Maria senza riuscire a frenare le lacrime che
scorrevano silenziose sul suo volto. Maria le passò una carezza sul capo ed
essa parve quietarsi; poi continuò con la “Preghiera del giusto”: “Quando ti invoco, rispondimi, o Dio mia
giustizia. Dalle angosce mi hai liberato, pietà di me, ascolta la mia
preghiera...”. Proseguì ancora con la “Preghiera del calunniato”: “Signore, mio Dio, in te mi rifugio, salvami
e liberami da chi mi perseguita…”, e poi con la “Preghiera dell’abbandono
fiducioso”: “A te, Signore, elevo l’anima
mia, mio Dio in te confido: ch’io non resti confuso! Non trionfino su di me i
miei nemici…”. Proseguì poi con
“l’Invocazione dell’innocente”, e infine con la “Professione della fede in
Dio”: “Il Signore è mia luce e mia
salvezza, di chi avrò paura? Il Signore è difesa della mia vita, di chi avrò
timore? Quando mi assalgono i malvagi…”.
La preghiera fluiva dalle labbra di Maria e cadeva sul nostro silenzio come
un balsamo, come una rugiada benefica. Era davvero la medicina di cui avevamo
bisogno in quel momento.
Ma ecco improvvisamente dei colpi violenti alla porta.
Presi dalla paura, restammo in attesa, col fiato sospeso. Da fuori, una voce
cominciò a chiamare: “Andrea! Giacomo!
Filippo! ...”. Era la voce di Pietro. Salome corse subito ad aprire. Lasciò
entrare l’Apostolo che dopo due passi si fermò e ci guardò tutti con la faccia
stravolta. Era irriconoscibile: gli occhi arrossati e gonfi, la barba
pasticciata di polvere e di muco, il volto madido di lacrime e di sudore...;
fece ancora due passi, poi si gettò bocconi sul tavolo e cominciò a gridare: “Ho detto di non conoscerlo! … Ho giurato di
non averlo mai visto!… Quella maledetta pettegola di portinaia!… E io,
vigliacco, io miserabile, vinto dalla paura: non l’ho mai conosciuto!… Non l’ho
mai conosciuto!…”.
I singulti gli scuotevano la schiena che si era fatta più
curva e massiccia; ogni tanto picchiava i pugni sul tavolo e poi si abbandonava
ad un pianto dirotto e disperato. Noi lo guardavamo senza capire, senza sapere
cosa dirgli. Non sapevamo cosa pensare. “Non
l’ho mai visto! - riprese picchiandosi il testone reso più ispido e ruvido
- non l’ho mai visto!… Maledetto freddo
che mi ha fatto cercare quel fuoco!… E quell’intrigante di servo che non
cessava di fissarmi!… E poi… quel maledetto gallo che si mise a cantare!… Non
l’ho mai conosciuto! … Non l’ho mai conosciuto!…”.
A quel punto gli si avvicinò Maria, lo chiamò sollevandolo
per le spalle, con un lino pulito gli asciugò il volto e gli pulì la barba, poi
prese la faccia dell’apostolo fra le sue mani materne e calde di tenerezza e
fissandolo dolcemente: “Pietro, -
cominciò - è vero! Non l’hai mai
conosciuto! Chi di noi può dire di averlo conosciuto veramente, Gesù? È vero!
Nessuno di noi lo ha ancora conosciuto fino in fondo! La tua non è stata
vigliaccheria, non è stata una menzogna. Tu non hai rinnegato Gesù. Gesù, tu lo
conosci e lo ami. Ma c’è ancora tanto da purificare nel tuo amore, c’è tanto da
rettificare nella tua conoscenza del Maestro. Pietro, figlio mio, c’è bisogno
di tanta umiltà. Le tue lacrime sono la tua umiltà. Esse laveranno gli occhi
della tua anima e purificheranno il tuo amore. E tu conoscerai Gesù a fondo, e
ti innamorerai pazzamente di lui, e saprai dare la vita per il tuo Maestro”.
Quella voce materna, serena e dolce, era come un olio
balsamico sulle ferite. Pietro andò calmandosi; i suoi singhiozzi si
attenuarono e cessò di piangere. Teneva la testa appoggiata sulla spalla di
Maria che lo stringeva dolcemente per le braccia. Non era più il Pietro focoso,
presuntuoso e irruente, era diventato come un bambino, si era trasformato in
una creatura.
“Pietro mio, - riprese Maria - ricordi lo sguardo di Gesù quando ti ha
invitato a seguirlo? Fissandoti ti ha chiamato non più Simone, ma Pietro. Ha
visto la sincerità del tuo cuore e ti ha cambiato: non più Simone, ma Roccia!
Figlio mio, non dimenticarlo mai quello sguardo di Gesù!”.
A queste parole Pietro si staccò da Maria, si asciugò le
lacrime col dorso della mano e: “Madre,
- disse (era la prima volta che la chiamava così) - Madre! Quello sguardo l’ho rivisto questa notte. Avevo appena giurato
di non conoscerlo e stavo scaldandomi al fuoco nel cortile di Caifa, quando
sentii alle mie spalle rumore di spade, trambusto e grida di folla. Mi voltai
di scatto e lo vidi. Legato come un malfattore, era circondato dai servi e
dalle guardie che a spintoni lo conducevano attraverso il cortile. Ma egli per
un attimo fece resistenza e si voltò a guardarmi. Aveva la guancia gonfia e la
barba intrisa di sangue, e gli occhi… ah! gli occhi! Erano quelli del mio primo
incontro con lui. Quello sguardo ce l’ho qui, - e appoggiava il pugno sulla
fronte e sul petto - qui dentro, e
continua a guardarmi, a chiamarmi per nome, dolcemente, irresistibilmente:
Pietro! Pietro!… Capisci, Madre? Non Simone, come mi aveva chiamato prima di
entrare nell’orto: ‘Simone, Simone, ecco Satana ti ha cercato per vagliarti
come il grano…’, ma Pietro! Sì, Madre! Quell’uomo spergiuro, quell’uomo
vigliacco, quell’uomo che ha rinnegato tuo figlio, non era ‘Pietro’, era
Simone. Non era ‘Pietro’!…”.
E così dicendo scoppiò di nuovo in un pianto dirotto
appoggiandosi sulle spalle di Maria. Non era il pianto di prima, un pianto che
sapeva di umiliazione e un po’ di rabbia, ma era un pianto d’amore, per un
dolore d’amore, e perciò un pianto di gioia. Quel pianto infatti ci contagiò un
po’ tutti; mi accorsi che tutti avevamo gli occhi lucidi di commozione.
Il
processo notturno contro Gesù Fino a quel momento, Salome era rimasta zitta
ma poi non riuscì a trattenersi oltre e chiese notizie di Giovanni. Pietro
raccontò di averlo accompagnato fino al cortile, ma poi non lo aveva più visto.
Presa dall’ansia, Salome stava preparandosi per uscire quando si udirono alcuni
colpi alla porta. Era proprio lui, Giovanni. Agitato e trafelato, fu accolto da
Salome che lo abbracciò piangendo. Si guardò intorno, e quando vide Pietro e
gli altri si rasserenò.
Cominciò allora a
raccontarci gli ultimi avvenimenti di quella tormentata e tragica notte.
Entrato nel cortile del palazzo dei Sommi Sacerdoti aveva girovagato cercando
di raccogliere notizie su Gesù. Riuscì a sapere che era stato condotto da Anna,
il vecchio Sommo Sacerdote scaduto, ma ancora molto potente, ispiratore di
tutto, e che dopo quell’incontro sarebbe stato portato a casa di Caifa, il
Sommo Sacerdote in carica, per un primo sommario processo. Nell’attraversare il
cortile, Giovanni vide Nicodemo il quale, dopo qualche resistenza, accettò di
prenderlo con sé, e insieme entrarono nella sala dove Caifa era in attesa di
Gesù.
Giovanni ci descrisse
la sala: erano presenti molti Sinedriti tra i più focosi e accaniti avversari
di Gesù, una ciurma inquieta di Scribi e Farisei, e in più un continuo viavai
di guardie, Leviti e inservienti che mettevano agitazione in tutto l’ambiente.
Quel viavai permise a Giovanni di passare inosservato. Dopo qualche tempo,
improvvisamente, si fece silenzio in tutta la sala; dalla porta di fondo venne
introdotto Gesù. Era proprio lui, ma quale impressione, quale sbigottimento nel
vederlo in quelle condizioni!
Nicodemo, nel suo
scanno, si prese la faccia fra le mani, poi si voltò a cercare con lo sguardo
Giovanni per vedere la sua reazione. Giovanni si trovava in mezzo agli
inservienti del Tempio e a un gruppo di Galilei che erano stati chiamati a
testimoniare. Più in là due Leviti, suoi compagni, fecero finta di non
conoscerlo.
Cominciò la farsa del
processo, ma Giovanni ci disse di ricordare ben poco perché il suo pensiero se
n’era andato dietro alla folla dei ricordi. Dov’era mai finito il Gesù del
Tabor? Il Gesù che domava le tempeste, moltiplicava i pani, comandava ai
demoni? E il Gesù di Betania, il Gesù che comandò a Lazzaro di uscire dal
sepolcro? Dov’era? E quel Gesù che aveva acceso i suoi entusiasmi, l’aveva
fatto riposare sul suo petto e l’aveva incatenato con il suo fascino? Per la
verità quel Gesù era ancora lì; sotto quella maschera: il volto insudiciato e
livido, le labbra tumefatte, la barba intrisa di sangue, i capelli sporchi e
disordinati, sotto quella maschera c’era ancora la dignità, la forza e la
sicurezza di sempre; ma perché non la usava?
Giovanni stette
pensieroso qualche istante. Frattanto Maria aveva portato una bevanda calda, di
menta e rosmarino, perché Pietro e Giovanni si ristorassero un poco e si
riprendessero dalle loro emozioni.
“La folla dei miei ricordi, - continuò Giovanni - veniva interrotta ogni tanto da fischi,
grida e risate che nella sala sottolineavano i vari passaggi del processo.
Infine, quel filo di ricordi fu bruscamente interrotto da un urlo che voleva
esprimere dolore, sorpresa, scandalo o tutte queste cose insieme: era la voce
roca di Caifa che, ritto davanti al suo seggio, si era strappato le vesti
gridando: ‘Bestemmia! Bestemmia! L’avete sentito tutti. A che servono ormai i
testimoni? È reo di giudizio, è reo di morte! Si convochi subito il Gran
Consiglio del Sinedrio in seduta plenaria!’. Era accaduto che Gesù aveva
dichiarato apertamente, si dovrebbe dire solennemente, di essere il Messia, il
Figlio dell’Altissimo. A quel punto portarono via Gesù coprendolo di sputi e
colpendolo brutalmente con calci e pugni. Così l’assemblea si sciolse”.
Man mano che Giovanni
andava descrivendo queste scene, la sua voce si caricava di tristezza. Ma non
riusciva a piangere, perché il suo animo appariva contratto, quasi inasprito,
un po’ per la constatazione della sua impotenza (il non poter intervenire in
alcun modo), un po’ per la rabbia contro quei figuri prezzolati che
testimoniavano falsità contro Gesù e verso quei rappresentanti del popolo e
dell’ambiente sacerdotale che spiravano odio feroce contro il Maestro.
Giovanni uscì da quella
sala sconfortato e deluso, e avrebbe voluto architettare qualche vendetta.
Stava guardandosi attorno quando fu raggiunto da Nicodemo il quale gli fece
capire che restavano ormai ben poche speranze sulla sorte di Gesù. Restava, è
vero, la sentenza del Sinedrio, ma appariva scontata; semmai qualche speranza
poteva venire dall’intervento del Procuratore romano che avrebbe potuto
capovolgere il verdetto del Sinedrio. Gli consigliò di tornare a casa con la
promessa che, al momento opportuno, lui stesso ci avrebbe ragguagliati
sull’evolversi degli eventi.
Nella nostra sala era
calato un profondo silenzio, carico di tristezza. Fuori stava spuntando l’alba,
e le prime luci del giorno attenuavano il chiarore della luna ormai al
tramonto. Maddalena non riusciva a dominare la sua inquietudine. La Madonna se
ne accorse, la avvicinò e prendendola per mano: “Maria, - le disse - ti
prometto che quando sarà il momento, andremo insieme a cercare Gesù, e lo
seguiremo dovunque lo porteranno, e ci dedicheremo a lui con tutto il nostro
amore. Ma ora vieni, chiediamo ai nostri ospiti se possiamo preparare del latte
caldo e del miele per tutti; ne avranno bisogno perché la giornata sarà lunga e
faticosa”.
I padroni di casa
diedero ordini agli inservienti di preparare tutto secondo il suggerimento di
Maria. Eravamo molti in casa, ma non tutti presero cibo: in molti prevaleva lo
stato d’animo di tristezza e di paura.
Finalmente sentimmo
bussare alla porta. Erano Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea. Dall’espressione dei
loro volti si capiva che era andata male. Il Sinedrio infatti, all’unanimità,
aveva condannato a morte Gesù. Egli si trovava ora in balìa degli sgherri e
delle guardie del Tempio, ai quali era stato consegnato in attesa di poterlo
condurre dal governatore romano per far avvallare la loro sentenza di morte.
Nicodemo consigliò a
tutti di non muoversi di casa perché i capi del popolo stavano reclutando gente
della peggiore specie per radunarla davanti a Pilato e richiedere a gran voce
la condanna di Gesù. Inoltre, da ieri era presente in città oltre al
governatore romano anche Erode, e perciò ogni minima avvisaglia di disordine
poteva scatenare l’intervento dei soldati.
1.. VENERDI’
SANTO: LA VIA DOLOROSA
“Ecce Homo” Ormai s’era fatto giorno. Giuseppe d’Arimatea
aveva già lasciato la nostra casa, Nicodemo invece preferì trattenersi ancora
qualche tempo con Maria. Uomo sensibile e di nobili sentimenti qual era, si
rendeva conto dell’impatto drammatico che una madre squisita e delicata come
Maria avrebbe dovuto sopportare per un figlio come Gesù, visto nelle condizioni
in cui egli l’aveva visto, e trattato come venne trattato in quella notte. Solo
più tardi e volendo seguire da vicino gli avvenimenti si congedò da Maria,
prese il mantello e si avviò all’uscita. L’apostolo Giovanni, quando Nicodemo
gli passò accanto, si alzò di scatto e si unì a lui con l’evidente intenzione
di seguirlo. Nicodemo si voltò verso Maria con sguardo interrogativo, come per
chiederle il consenso, e lei con cenni del capo fece intendere che era
d’accordo.
Anche Myriam e Salome
presero lo scialle e si avviarono all’uscita per seguire i due discepoli. A
quella vista Maddalena, senza prendere né scialle né altro, si precipitò verso
la porta per unirsi alle donne. Ma Maria la fermò e guardandola dolcemente: “Maddalena, - disse - noi andremo più tardi; ti ho già detto che
verrai con me, e staremo insieme vicino a Lui”. Mi resi conto più tardi che
Maria volle risparmiare a Maddalena le drammatiche e dolorose scene di Gesù
deriso, insultato e maltrattato davanti al popolo, ai capi dei Giudei e ai
pagani.
Passarono così le prime
ore del giorno. Verso l’ora terza - le nove del mattino - udimmo ancora i
soliti colpi alla porta: era Giuseppe di Arimatea. Entrò, alterato in volto per
l’indignazio-ne, scosse la testa e allargò le braccia con uno sbuffo lungo e
sofferto che esprimeva rabbia e insofferenza. “Mascalzoni! - cominciò a gridare - Mascalzoni e furfanti, ecco cosa sono! Hanno arruolato la marmaglia più
stupida e venale per far pressione su di lui. Che cosa si credeva quel Ponzio
Pilato, rappresentante del diritto e della giustizia romana, che cosa si
credeva? Di ragionare di giustizia e di diritto con coloro che conoscono solo
l’avidità più sfrenata e l’odio più cieco? Di giocare d’astuzia con coloro che
vivono di menzogna e sono maestri di falsità e di inganno? Povero illuso! Nemmeno
il ricorso alla sua autorità, lui, il rappresentante della grande Roma e del
suo Imperium, è valso a qualcosa. Che peso poteva avere l’autorità di un
provinciale davanti a coloro che sono i più sottili e abili maestri del ricatto
e della dialettica più tortuosa? Non bastano il disprezzo e il sarcasmo per far
rispettare la legalità a chi si è fatto legge e giudice a sé stesso!”.
Giuseppe, che era
entrato senza salutare nessuno, camminava su e giù per la casa, in preda
all’indignazione e alla collera; sembrava che parlasse da solo, con sé stesso.
Noi lo guardavamo in silenzio, cercando di capire.
“E i suoi espedienti, così crudeli e ridicoli… - ripeté dopo una
pausa - belli espedienti! Prima lo invia
a quella volpe e bellimbusto di Erode. Che ne sa di giustizia e soprattutto di
onestà quell’animale? Bene ha fatto Gesù a non rivolgergli nemmeno uno sguardo!
Non sapeva Pilato - in fondo lui è un soldataccio romano che non conosce per
niente l’animo e i sentimenti dei nostri capi - non sapeva che questo espediente
avrebbe irritato ancora di più il Sommo Sacerdote che si vedeva esautorato e
scavalcato da un vile vassallo di Roma? E la reazione di quel miserabile
vassallo s’è vista: lo ha rimandato al mittente vestito di bianco, come si
vestono i pazzi! Mi sono recato anche da Cusa, intendente di Erode, per parlare
con sua moglie Giovanna e vedere se potevamo fare insieme qualcosa. Ero pronto
a pagare qualsiasi prezzo per riscattarlo dalle loro mani! Ma lei era corsa
dall’amica Susanna, disperata per quanto stava succedendo. Sembra proprio che
nessuno riesca a fermare questi eventi!”.
Fece una pausa come per
riordinare i propri sentimenti. Poi, ancora più concitato, riprese: “Ed ecco poi l’altro espediente, peggiore
del primo: ha voluto barattare Gesù con Barabba! Capite? Con Barabba! Un
bandito che con le sue razzie e le sue violenze ha seminato terrore per le
contrade della Giudea. E lui, il Maestro, che sulle contrade della Giudea e
della Galilea e dappertutto ha seminato pace e amore beneficando e sanando
tutti, lui: al patibolo! ‘Crocifiggilo! - hanno gridato - crocifiggilo!’. E la
canaglia, che urlava sempre più forte, aveva aumentato le sue file. Non solo le
guardie del Tempio, i servi e la plebaglia dei loro palazzi, ma perfino i
Leviti hanno arruolato. E loro, lì, in prima fila: Anziani, Sacerdoti, Scribi
e, davanti a tutti, Caifa. Tutti nella pompa dei loro paludamenti, con sfoggio
dei loro Efod, delle loro catene d’oro, dei loro mantelli purpurei e copricapo
solenni, di tutto ciò che poteva impressionare quello zoticone di Pilato.
Zoticone e crudele: ‘Gli darò un castigo - urlò - e poi lo rilascerò’. Un
castigo? Ma se tu stesso lo hai dichiarato innocente, per quale colpa mai lo
castighi? Per commuovere quei signori? Bell’espediente! Puoi forse spremere
lagrime dai sassi, o distillare profumi dai letamai? E d’altronde puoi pensare
di commuovere le pietre, tu che non conosci la pietà? Un castigo! E chiami
castigo la flagellazione? Il supplizio più spietato che la tua legge bandisce
come incompatibile per un cittadino romano, e tu lo usi con il più mite,
saggio, degno Maestro che sia apparso sulla terra?”.
Si fermò un istante
come per prendere fiato, mentre noi, impietriti, seguivamo in silenzio il suo
racconto. Poi riprese: “Pensando a tutto
questo, mi precipitai all’entrata del cortile del Pretorio deciso a varcare
quella maledetta soglia, incurante delle leggi rabbiniche. Se Gesù era entrato
nella casa di un pagano, potevo entrarci anch’io! Volevo impedire quella
crudeltà, ma i soldati incrociarono le lance e mi bloccarono. Perché dunque non
si riesce, nessuno riesce a fermare questi eventi?”.
Così dicendo Giuseppe
si accasciò su uno sgabello, prese la testa fra le mani e: “Qui! - cominciò con una voce simile a un gemito - qui! Mi risuonano ancora qui, nella testa!...
Prima le risate e gli scherni dei soldati; poi i colpi tremendi, implacabili,
durissimi, interminabili: uno, due, tre, … dieci … trenta … cinquanta,
ottanta…, non finivano mai! Non finivano, non finivano! E io lì, impotente,
davanti a quelle guardie impassibili, e dall’altro lato le urla scomposte e
volgari della plebaglia. Quei colpi! Quei colpi! Rimbombano ancora, qui, nella
mia testa. E da Gesù soltanto alcuni gemiti; gemiti che andarono affievolendosi
fino a scomparire. Solo allora si udì la voce del centurione che intimò
l’arresto di quella carneficina”.
A queste parole
Giuseppe si fermò, e si chiuse in un impressionante silenzio. In tutta la casa
non c’era uno che si muoveva; quel racconto un po’ parlato, un po’ urlato, un
po’ soffocato nei gemiti, aveva raggelato il nostro animo; eravamo incapaci di
qualunque reazione. Non riuscivamo a fare domande, a chiedere i particolari dei
fatti, come se avessimo paura di saperne di più.
Passò così qualche
tempo, poi Giuseppe cercò di riprendersi: alzò la testa, girò lo sguardo
intorno come se cercasse in noi un consiglio, un aiuto, o almeno un po’ di
conforto e di partecipazione: la sua faccia era una maschera di tristezza, di
dolore e di rabbia. Infine, con toni più pacati, riprese: “Ciò che seguì a quello strazio crudele è indegno anche per il più
brutale degli aguzzini. Passò del tempo che mi è sembrato un’eternità. Girai al
largo dalla folla in cerca di Nicodemo; improvvisamente un silenzio, e poi un
urlo che mi gelò il sangue nelle vene. Pilato era uscito fuori dal Pretorio e
con un gesto della mano rivolto alla folla, fece avanzare Gesù gridando: ‘Ecco
l’uomo!’. Infatti Gesù non c’era più, non era più lui. Quel rudere barcollante,
che a mala pena si reggeva in piedi, era un cencio a brandelli. Una maschera di
sangue e di dolore che i soldati hanno voluto arredare con le insegne della
regalità! Quel casco di spine a mo’ di corona ficcato nella testa, quello
straccio scarlatto sulle spalle scarnificate dai colpi, quella canna fessa
infilata tra le mani legate ai polsi con una catena… tutto per incorniciare un
volto tumefatto e livido, un povero corpo maciullato e straziato! Ma che altro
voleva quel rude soldato, rappresentante di Roma, che altro si aspettava da una
folla insana, prezzolata e servile, che lo sovrastava con le sue urla e le sue
risate? Con un re da burla credeva di appagare l’odio insaziabile dei nostri
capi!”.
“Non sapevo che fare. Aggirai la ciurma e mi portai a
ridosso dei sacerdoti, combattuto se avvicinarmi a Gesù o fuggire. Mi fermai a
guardarlo: di Gesù non restava più niente, se non la sua dignità maestosa e… i
suoi occhi! Quello sguardo mi segue ancora. Erano occhi luminosi. Brillavano.
Non per la febbre, non per le lacrime. Guardavano la folla senza rancore, senza
desiderio di vendetta, senza atteggiamento di giudizio; guardavano come tante
volte hanno guardato i malati, i lebbrosi, i poveri, i disgraziati. C’era in
quello sguardo forza e severità, ma anche tanta tristezza, tanto dolore, tanta
dolcezza! Erano occhi rivolti alla folla, ma guardavano uno a uno quei poveri
sciagurati, entravano in ciascuno di loro come un raggio di luce in lotta con
le tenebre più fitte.”
“Alla fine non ce l’ho fatta. Non potevo più sopportare
quello scempio, quella sporca e umiliante faccenda, ma soprattutto non potevo
più sopportare la mia impotenza, la mia impossibilità di fare qualcosa, di
fermare l’ondata di malvagità e di odio che si consumava sotto i miei occhi.”
“E ora, davvero non possiamo fare più nulla; è finita!”
“Il Servo di Jahvè Una dopo l’altra le parole di Giuseppe
arrivavano al nostro animo come lame roventi che penetravano nel cuore e
insieme come colpi di ariete che demolivano impietosamente ogni nostro ideale,
ogni nostra prospettiva futura. Fu come se quei soldati avessero messo a ferro
e a fuoco tutte le nostre speranze. Eppure era troppo presto per convincerci
che tutto era finito. In quel momento il pensiero che Gesù era nelle mani dei
suoi avversari, in balia di spietati aguzzini, impediva alla nostra mente ogni
altro ragionamento. Eravamo troppo feriti nei nostri sentimenti e nel nostro
affetto per pensare al dopo.
Un amore ferito e
oltraggiato non può pensare ad altro che alla persona amata. E così Maddalena,
non potendo più trattenere il dolore lancinante che s’era accumulato nel suo
cuore, si lanciò verso Maria e aggrappandosi al collo di lei, cominciò a
gridare fra i singhiozzi: “No!… No!…
No!…”. Non riusciva a dire altro; era il grido di chi non poteva accettare
una realtà inaccettabile, di chi dentro al suo animo respingeva con tutte le
sue forze il pensiero che fosse vero ciò che era stato narrato da Giuseppe; era
il gemito inconsolabile di un’anima innamorata di fronte alla soppressione
ingiusta e crudele della persona amata.
Maria la teneva stretta
a sé teneramente e le passava dolcemente la mano sulla testa finché si
placarono i singulti e ruppe silenzioso il torrente delle lacrime. Allora
Maria, con una voce che pareva venisse da lontano, o dal profondo, segnata
comunque dalla tristezza e dal dolore, cominciò:
“Oracolo del Signore!
Ecco il mio Servo:
è cresciuto come un virgulto
come una radice in terra arida.
Non ha apparenza, né bellezza
per attirare i nostri sguardi,
non splendore per potercene compiacere.
Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,
si è addossato i nostri dolori
e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per i nostri delitti,
schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà la salvezza si è abbattuto su di lui;
per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
ognuno di noi seguiva la sua strada;
il Signore fece ricadere su di lui
l’iniquità di noi tutti.
Maltrattato, si lasciò umiliare.
E non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca……
Mentre parlava, Maria
teneva chiuse le palpebre come se quel testo del profeta Isaia scorresse dentro
di lei e lo leggesse scritto nel suo cuore. La sua voce si faceva ora tremante,
ora serena e pacata, e ogni tanto si fermava per qualche istante di pausa. Quei
versetti scorrevano nel silenzio come fuoco liquido, ma insieme arrivavano al
nostro cuore come olio salutare e balsamico.
Eravamo tutti raccolti
nella sala grande della casa: i familiari di Marco, gli Apostoli, Giuseppe di
Arimatea, alcuni discepoli e noi. Nessuno si era accorto della propria
stanchezza né della propria fatica; solo Marco s’era addormentato, rannicchiato
su un divano. Anche le lacrime della Maddalena si erano fermate. Maria allora la
sollevò adagio, le asciugò il volto, e: “Va’,
- disse - prendi i nostri scialli e un
vasetto di sali o di essenze; è venuto il momento di andare”.
Alcuni si alzarono,
altri guardarono Maria per capire che cosa fare. Ma ella intervenne
raccomandando a tutti di non muoversi e di ricordarsi invece del salmo di
David, il salmo n. 2 del salterio, perché solo la parola che Dio ci ha rivolto
per mezzo dei Profeti può aiutarci a capire e ad accettare gli avvenimenti che
non comprendiamo. A Maria di Marco raccomandò di rincuorare tutti con qualcosa
da mettere nello stomaco. Poi aiutò Maddalena a mettersi in ordine e uscirono.
“La via dolorosa” Nel frattempo io avevo
preso il mio mantello ed ero uscito con Giuseppe di Arimatea aspettando Maria
fuori di casa. Il sole era ormai alto e aveva riscaldato l’aria. Prendemmo la
strada che sale lungo il Tyropeon e porta alla Torre Antonia dove s’era insediato
in quei giorni il Procuratore Romano. )…)
Arrivati al punto in cui la strada che scende dalla Torre Antonia gira
verso le mura e sale alla Porta di Efraim, ci fu impossibile proseguire.
Giuseppe cercava di filtrare per aprirsi un passaggio quando uno squillo di
tromba annunciò l’avvicinarsi del corteo militare. Allora la folla si diradò e
molti procedettero oltre. Ci fu possibile così occupare l’angolo dove la strada
gira e sale verso le mura. Lì ci fermammo perché già era apparso il centurione
a cavallo, seguito da altri soldati che tenevano al largo la folla. Il cuore ci
batteva forte per l’ansia e per l’attesa di ciò che si sarebbe presentato ai
nostri occhi. (…)
Di mezzo alla ciurma
spuntava un palo che avanzava lentamente, ondeggiando, con moti bruschi e
incerti; improvvisamente disparve accompagnato da sarcastiche risate. Capii che
si trattava di Gesù che portava sulle spalle il patibulum, il palo della croce,
e che era caduto forse inciampando nel selciato. Con calci e spintoni lo fecero
alzare caricandolo nuovamente del palo, mentre una guardia lo aiutava a
reggersi tenendolo per una cintura legata ai fianchi. Era ormai a pochi metri
da noi, e quando ce lo trovammo davanti ci rendemmo conto delle atrocità che
erano state commesse su di lui: la testa coronata di spine, i lunghi capelli
impiastricciati di sangue e di fango, il volto livido e tumefatto coperto di
grumi, di sudore freddo, di sputi e di polvere, le labbra screpolate e riarse,
le orecchie e il collo rigato da lividi; vestiva la sola tunica, quella
inconsutile, dalla quale sulle spalle, sul petto e sulle braccia trasparivano
le chiazze di umore sanguigno. La veste e il mantello li portava un soldato.
Dio mio, in quali
condizioni l’avevano ridotto! Mi coprii istintivamente la faccia, mentre la
Maddalena con un urlo si gettò verso Gesù gridando: “Maestro mio! Maestro mio!”. Un soldato la fermò afferrandola per
le braccia. Gesù a quel grido riconobbe la voce e si voltò verso di noi, ma
barcollando sotto il peso del patibolo, stramazzò per terra. Gli sgherri
stavano per colpirlo e malmenarlo quando Giuseppe d’Arimatea con un balzo si
avvicinò a loro gridando: “Lasciatelo!”.
Si fermarono lì intorno, e si fece silenzio. Allora guardandoli con piglio
fiero e autoritario, aggiunse: “Sollevatelo!”.
Ed essi lo sollevarono.
Quando Gesù fu in
piedi, Giuseppe gli indicò sua Madre. Maria si avvicinò a Gesù, e Gesù,
vedendola, ebbe come un ritorno di energia e di forza, si rizzò dritto sul
tronco e spalancò gli occhi che prima apparivano velati e stanchi. I due
sguardi si incontrarono, come tante volte, in un silenzio che si apriva
sull’abisso del cuore. Quelli che stavano intorno, quando videro Maria,
zittirono tutti e nessuno ebbe il coraggio di muoversi. Allora Maria, con una
voce infinitamente appassionata e infinitamente tenera: “Figlio mio!, - esclamò - come
ti hanno ridotto!”, e due lacrimoni immensi le rigarono il volto. “Madre - fu la risposta - il mio dolore è anche tuo, ma anche il tuo
dolore è mio! È la nostra ‘ora’!”.
Poi, con un sorriso impregnato d’amore e di dolore, soggiunse: “Grazie d’essere venuta. Raccogli intorno a
te i miei discepoli”. Il centurione, accortosi che il corteo si era
fermato, diede una voce ai soldati perché si riprendesse il cammino dopo aver
caricato di nuovo il palo sulle spalle di Gesù. (…)
Avevamo percorso una
ventina di metri quando da una casa che aveva l’aspetto di un’abitazione
signorile, uscì una donna dal portamento distinto ed elegantemente vestita. Era
accompagnata da un gruppo di donne in abiti da lutto che emettevano lamenti e
lagrime. Con una mossa imprevista, la donna filtrò tra i soldati e le guardie
fermandosi davanti a Gesù; estrasse dal suo ampio mantello un bianco lino,
prezioso, lo depose delicatamente, con tenerezza quasi materna, sul volto del
Signore aspettando che si imbevesse come se volesse detergere quel viso
martoriato, poi lo tolse adagio e si ritirò. Il gesto della donna colse di
sorpresa Gesù e le guardie. Queste non accennarono ad alcuna reazione, anche
perché quella donna mostrava dignità e fermezza; Gesù invece si voltò verso le
piangenti e disse: “Donne di Gerusalemme,
non piangete su di me, ma su voi stesse e sui vostri figli; ecco, verranno
giorni nei quali si dirà: beate le sterili e i grembi che non hanno generato e
le mammelle che non hanno allattato! Perché se trattano così il legno verde,
che avverrà del legno secco?”.
Allora quella donna ripiegò il velo, attese Maria e glielo consegnò. Maria
trovò la forza di guardare la donna con un tenue sorriso carico di dolore ma
anche di gratitudine per quel gesto di solidarietà squisitamente femminile e
materna. Poi prese il lino, lo baciò intensamente e lo consegnò a Maddalena.
Il corteo riprese
lentamente il suo cammino, ma dopo pochi passi Gesù non resse la fatica e si
accasciò sulla strada. Cercarono di strattonarlo per la cintura e di smuoverlo
con spintoni, ma Gesù non si mosse; restò con le mani e le braccia distese sul
selciato e con la testa appoggiata su una guancia. Quella scena mi strappava il
cuore, ormai non reggevo alla pena. Anche i soldati, preoccupati che Gesù non
potesse proseguire oltre, chiamarono il centurione il quale si rese subito
conto delle condizioni del “condannato”, ormai allo stremo delle sue forze. Si
guardò intorno come per cercare una soluzione. In quel momento era entrato
dalla porta di Efraim e stava scendendo la strada un uomo di mezza età,
robusto, accompagnato da due giovani figli che portavano gli attrezzi di
lavoro. Le fattezze e il portamento facevano capire che era un colono, oriundo
da qualche regione vicina, che tornava dai campi. Il centurione ebbe una pronta
intuizione: fece fermare quell’uomo e gli ingiunse di seguire Gesù portandogli
il palo della croce; voleva assicurarsi che Gesù potesse giungere al luogo
della crocifissione. Ma l’uomo reagì energicamente rifiutando con violenza
quell’imprevista e ripugnante prestazione.
Nel frattempo uno dei
figli si era avvicinato a Gesù che stava tentando con sforzi penosi di
sollevarsi; si incontrò con il suo sguardo e lo riconobbe. Tornò da suo padre
che stava dimenandosi tra due soldati: “Padre,
- gli disse - quell’uomo è Gesù, il Rabbi
Profeta della Galilea. Aiutalo!”. Quell’uomo, che poi seppi chiamarsi
Simone, si calmò, andò verso Gesù che lo guardò intensamente con un lieve
sorriso, poi, guardando la ciurma con una smorfia di disgusto, prese il palo
della croce e, senza una parola, se lo caricò sulle spalle accennando a
riprendere il passo. A tutti noi venne un sospiro di sollievo. Il gesto della
donna e quello di Simone ci parvero una benefica rugiada in mezzo a tanta
durezza, a tanta aridità e violenza. Alcuni della ciurma si erano spostati più
indietro accanto ad altri due condannati che venivano portando anch’essi il
patibolo. Erano due predoni della banda di Barabba ed erano stati condannati
anch’essi alla crocifissione.
2. VENERDI’
SANTO:
CROCIFISSIONE E MORTE DI GESU’
La crocifissione Arrivammo così alla
Porta di Efraim. Ci collocammo in disparte e vedemmo sfilare i soldati, le
guardie che circondavano Gesù, i due condannati, poi il corteo dei sacerdoti e
infine la plebaglia. Fu in quel momento che mi sentii chiamare per nome: era
Giovanni che con Nicodemo, Myriam e Salome cercava di raggiungerci filtrando
attraverso la folla che seguiva il gruppo degli Scribi e dei Sacerdoti, lungo
il percorso che porta al Calvario. (…) Era, il Calvario, uno spuntone roccioso
appena fuori dalla Porta di Efraim, sulla destra della strada che sale verso i
monti, spoglio e calvo come un “cranio” (Golgota). Lì erano preparati gli
stipiti delle croci.
Abbandonammo la strada
che fu invasa dalla plebaglia manovrata dai sacerdoti e dagli Scribi e salimmo
a ridosso delle mura della città, a una trentina di metri dal luogo dov’erano
issate le croci. Di lì potevamo seguire il triste e crudele rituale della
crocifissione. Le donne si consultarono con Giuseppe d’Arimatea per vedere cosa
si poteva fare per aiutare Gesù, alleviargli il dolore oppure ottenere un
trattamento più umano da parte dei carnefici. Ma ormai i soldati avevano
circondato il luogo dell’esecuzione, e del resto Gesù aveva mostrato di voler
gestire lui stesso la sua passione. Rifiutò infatti la pozione di vino mirrato
che il centurione aveva offerto come analgesico a lui e agli altri condannati.
La crocifissione dei due ladroni fu più semplice e fu eseguita per prima. I due
urlavano, imprecando e maledicendo, con grida disperate e strazianti; si
calmarono un poco quando furono innalzati sulla croce, e solo per effetto della
pozione narcotica.
Vennero poi a Gesù. Lo
spogliarono della tunica che misero da parte insieme alla veste e al mantello
che un soldato aveva portato. Era la tunica inconsutile che Maria aveva
terminato di tessere poco prima che Gesù lasciasse la sua casa. Quella tunica
s’era allora saldata con le carni martoriate di Gesù e gli aveva in qualche
modo fermato le emorragie, ma lo strappo violento della spoliazione riaprì
molte ferite che colarono sangue lungo tutto il corpo. Quando quel corpo si
presentò ai miei occhi nudo, fui preso dal terrore. Solo un odio satanico può
ridurre un essere umano in quelle condizioni! Non c’era un lembo di carne che
fosse integro; le spalle e la schiena maciullate, le braccia e le cosce
sembravano mangiate dalla lebbra. Il quadro era terrificante; costringeva a una
pietà infinita. Maddalena e Salome si voltarono verso le mura e furono prese da
una forma di deliquio. Myriam fece ricorso al vasetto dei sali per rincuorarle.
Maria teneva le dita incrociate sotto il mento e sussurrava con un filo di
voce: “Gesù! Figlio mio! Figlio mio!
Figlio mio!”, non riusciva ad aggiungere altro. Anche Myriam piangeva in
silenzio accanto a lei; Giovanni e io eravamo come impietriti; sul dolore
prevaleva il terrore.
Prima che Gesù venisse
disteso sul patibolo, Giuseppe d’Arimatea si sciolse l’ampio copricapo di lino,
fece un cenno ai soldati e si avvicinò a Gesù. Gli sgherri lo guardarono e lo
lasciarono fare. Giuseppe prese il lino, lo piegò a forma di piccolo grembiule
e lo cinse ai fianchi di Gesù per coprirlo. Allora gli sgherri presero la
corona di spine e tornarono a conficcargliela sul capo, poi lo presero per i
polsi e lo distesero sul patibolo. Cominciarono i colpi di martello,
sopraffatti solo in parte dagli schiamazzi e dai sarcasmi della plebaglia che
s’era distribuita intorno al “cranio roccioso” fin giù sulla strada.
Io non riuscivo a
sopportare quella scena; istintivamente mi sarei messo vicino a Maria, ma,
vedendola immersa in un dolore straziante, non ne ebbi il coraggio. Mi voltai
indietro e non trovai di meglio che andare accanto a Maddalena e stringermi a
lei come per chiederle aiuto. Tremavo infatti di paura. Essa si sentì come
interpellata da quel gesto che le servì da scossone; pallida in volto, con gli
occhi gonfi, mi prese le mani e: “Non
aver paura, - cominciò - non aver
paura! Gesù ci è stato tolto per ‘un poco’; lo riavremo perché Gesù è nostro,
non può togliercelo nessuno. Non so spiegarmi ciò che sta accadendo, né perché
lo trattano in questo modo. So soltanto che così deve accadere, che non posso
impedire che così accada. Ma sarà solo per ‘un poco’. Non so nemmeno ciò che
succederà dopo. Per ora so soltanto che non posso strapparlo dalle loro mani e
che non posso aiutarlo. E questo mi fa morire. Vorrei essere io al suo posto,
vorrei che li dessero a me quei colpi. Non è la paura che mi fa soffrire, ma
l’amore. Il dolore fa paura, l’amore fa morire. Soffro perché lui soffre, muoio
perché lui muore... Ma, non temere: è per ‘un poco’, è solo per ‘un poco’.
Intanto gli sgherri
avevano inchiodato Gesù al patibolo e lo stavano issando sullo stipite della
croce. Non un lamento da parte di Gesù, solo una leggera smorfia di dolore su
quel viso disfatto e imbrattato. La sua croce era piantata nel mezzo, sul punto
più alto del Golgota. Quando il suo corpo apparve appeso alla croce, un urlo di
trionfo si levò dalla folla, mentre Farisei e sacerdoti approvarono
applaudendo. Poi diedero sfogo agli insulti e ai sarcasmi: “Ehi, tu che distruggi il Tempio e in tre giorni lo ricostruisci,
scendi ora dalla croce! Sono Figlio di Dio, hai detto, chiamalo ora che venga a
salvarti… Hai salvato tanti altri e non sei capace ora di salvare te stesso…
Sei il re d’Israele? Scendi dalla croce e ti crederemo!”.
Il coro degli insulti e
degli scherni si mescolava alle risate e ai fischi, mentre il ladrone di
sinistra vi aggiungeva le sue urla e le sue imprecazioni. La gazzarra si
protrasse per qualche minuto. Intanto gli sgherri cominciarono la chiodatura
dei piedi. A ogni perforazione, il corpo di Gesù rispondeva con un sussulto
accompagnato da un respiro forte e affannoso. Durante un momento di silenzio,
udimmo chiaramente le sue prime parole di crocifisso: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”. Quelle
parole furono accolte con sarcasmo dai Farisei che erano lì presenti, mentre il
ladrone di sinistra gridò: “Se tu sei il
Cristo salva te stesso e noi!”. L’altro ladrone rimase invece molto
impressionato; non solo dalle parole di perdono di Gesù, ma da tutto il suo
comportamento: non un urlo di rabbia, non una maledizione, non un gesto di
ribellione o di insofferenza. Allora con grande sforzo si rivolse al suo
compagno e cominciò a ricordargli le innumerevoli malefatte nelle quali furono
complici, e finì rinfacciandogli il suo ingiusto comportamento blasfemo. Tacque
per qualche istante come per farsi coraggio, poi guardando verso Gesù, con voce
di supplica, esclamò: “Gesù, ricordati di
me quando entrerai nel tuo Regno”. Lo sguardo di Gesù s’illuminò e si
diresse con immensa pietà verso il ladrone:
“In verità ti dico, oggi sarai con me nel Paradiso”. Il ladrone cessò di
gridare e di lamentarsi, chiuse gli occhi come se volesse assaporare
interiormente le parole di Gesù mentre dal suo viso scomparivano le smorfie e
le grinze di dolore; si vedeva che non era assopimento, ma qualcosa di simile
alla pace dell’anima che gli faceva dimenticare la sua condizione di
crocifisso.
“Ecco tua Madre!” Intanto i soldati si erano spartite le
vesti di Gesù dividendo in quattro parti il mantello secondo le cuciture, e
tirando invece a sorte la tunica inconsutile che non si poteva dividere.
Improvvisamente si verificò nel cielo uno strano fenomeno: il sole cominciò a
perdere lentamente il suo splendore come se un’atmosfera plumbea lo coprisse.
Nell’aria si diffuse un cupo chiarore crepuscolare molto simile al buio. Un
buio però nel quale le cose apparivano illuminate e si potevano distinguere
nettamente. Così i crocifissi si stagliavano chiaramente sullo sfondo buio del
cielo. Il fenomeno cominciò a impressionare la folla e noi tutti. Gli
schiamazzi cessarono e la plebaglia cominciò a diradarsi; uno dopo l’altro
molti dei sacerdoti e dei sinedristi lasciarono il Golgota, alcuni soldati
furono sostituiti, e altri furono posti di guardia dietro i crocifissi.
A quel punto Giuseppe e
Nicodemo, Maria e tutti noi ci avvicinammo alla croce fermandoci a pochi metri
da Gesù. Visto così da vicino, il suo corpo si presentava come un quadro
raccapricciante e spaventoso. Le membra erano tese fino allo spasimo, il petto
sporgeva in avanti e la testa era leggermente inclinata sulla spalla sinistra;
il corpo poi era tutto una piaga, rigagnoli di sangue, in parte coagulato e in
parte ancora vivo, scorrevano lentamente dal volto e dalle membra lungo tutto
il corpo; la guancia destra era tumefatta e le labbra riarse e screpolate; e
poi… quelle spine che penetravano nella testa, e quei chiodi che perforavano i
polsi e i piedi, e le ginocchia scorticate fino all’osso!
Dio mio! Come si può
ridurre un essere umano in quelle condizioni? La Maddalena non riuscì a
trattenersi, e lasciò sfogo a un pianto dirotto e inconsolabile; io,
rabbrividito, mi posi con Giovanni accanto a Maria; dall’altra parte erano
Myriam e Salome. Al pianto disperato di Maddalena, Gesù alzò la testa, aprì gli
occhi, e con uno sforzo doloroso si sollevò facendo leva sulle braccia. Guardò
lungamente sua Madre in silenzio; poi, osservò uno a uno ciascuno di noi. Il
suo sguardo era quello dei momenti più intensi: profondo, esigente, dolcissimo,
anche se coperto da un velo di tristezza e di dolore. Quando si posò su di me,
mi accorsi che le labbra di Gesù accennavano a un tenue sorriso che richiamava
la nostra lunga familiarità e amicizia. Io mi sentii morire e mi sfuggì a mezza
voce: “Gesù mio… grazie!”. In un
istante, quanti ricordi alla mia memoria! Quanti momenti indimenticabili
vissuti insieme!… “Gesù mio... grazie!”.
Con un nuovo sforzo
delle braccia, Gesù si sollevò diritto sulla croce, guardò nuovamente sua Madre
con un’espressione estremamente intensa e amorosissima, poi con voce colma di
affetto: “Donna, - esclamò - ecco tuo figlio!”, e guardò
affettuosamente Giovanni che era lì accanto a lei. L’Apostolo, colto di
sorpresa, guardò Gesù con sguardo interrogativo cercando di capire. Gesù allora
soggiunse: “Ecco tua madre!” e girò
il capo in direzione di Maria. I due, Maria e Giovanni, si guardarono l’un
l’altro e intuirono di aver colto il desiderio di Gesù. Maria allora prese per
una mano Giovanni e lo attirò a sé stringendolo forte al petto, mentre due
grosse lagrime le rigavano il volto. (…)
“E reclinato il capo, spirò” Dopo essersi rivolto a Maria e a Giovanni, Gesù
stette per qualche tempo in silenzio. Del resto egli cominciava a dare segni
evidenti di sfinimento e di estrema spossatezza. Le braccia non riuscivano a
sostenere a lungo il corpo diritto sulla croce. Il petto e la testa sporgevano
penzoloni in avanti come se quella posizione gli consentisse un po’ di
sollievo. Anche l’altro ladrone aveva cessato le grida e i lamenti, e i suoi
gemiti andavano affievolendosi. Lui e il suo compagno, anche per effetto della
pozione narcotica, si erano assopiti.
Improvvisamente, come se fosse scosso da una rinnovata
forza interiore, Gesù si sollevò sulle braccia, alzò la testa verso il cielo e
con voce forte esclamò: “Elì, Elì, lammà
sabactani?”. Sono le parole di
inizio del Salmo 21: “Dio mio, Dio mio,
perché mi hai abbandonato?”. I farisei e alcuni dei presenti si guardarono
con un sorriso di scherno: “Senti, senti,
- esclamarono - forse chiama Elia!...
Vediamo se viene a liberarlo!”. Ma Gesù continuò la recita del Salmo con
voce accorata. Alcuni versetti li recitò adagio, scandendo le parole con tono
di sofferenza: “Sono un verme, non un
uomo, infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo. Mi scherniscono quelli che
mi vedono, storcono le labbra, scuotono il capo. Si è affidato al Signore, lo
scampi; lo liberi se è suo amico… Un branco di cani mi circonda, mi assedia una
banda di malvagi; hanno forato le mie mani e i miei piedi, posso contare tutte
le mie ossa. Essi mi guardano, mi osservano: si dividono le mie vesti, sulla
mia tunica gettano la sorte, ma tu, Signore, non stare lontano, mia forza
accorri in mio aiuto… Torneranno al Signore tutti i confini della terra, si
prostreranno davanti a lui tutte le famiglie dei popoli… E al popolo che
nascerà diranno: “Ecco l’opera del Signore!”.
Nell’atmosfera ottenebrata e plumbea, quelle parole di Gesù
ci cadevano addosso ancora più pesanti, cariche di tragedia e di dolore, e le
stesse espressioni di fiducia e di speranza che sono disseminate lungo quel
salmo, non sapevamo come giustificarle. Le parole di sfida gridate dai nemici
di Gesù durante la crocifissione: “Ha
confidato in Dio, lo liberi ora se gli vuol bene!”, ci sembravano crudelmente vere. Ma poi, guardando Gesù, il suo
volto ispirato, il suo corpo stranamente illuminato nell’aria buia, sembrava
che egli avesse ritrovato la forza della sua preghiera di Figlio, e quelle
parole di sfida ci apparivano diabolicamente false. Quella preghiera salmodica
invece era rigorosamente attuale, si stava compiendo in quel momento sotto i
nostri occhi, ed era il grido fiducioso del Figlio, grido che penetrava nei
Cieli fino al cuore del Padre, con la certezza che il Padre lo avrebbe
ascoltato.
Tuttavia la recita del Salmo era costata a Gesù una fatica
immane. Nonostante qualche breve pausa tra una strofa e l’altra del salmo, la
voce gli era uscita con uno sforzo che faceva pena, accompagnata da un respiro
affannoso. Quel respiro a bocca aperta e soprattutto l’ingente perdita di
sangue avevano reso “arido come un coccio
il (suo) palato, e la (sua) lingua si era incollata alla gola”. Spossato e
costretto a lasciarsi andare come se fosse preso da collasso, Gesù emise un
gemito esclamando: “Ho sete!”. Uno
dei soldati che stava di guardia sotto la croce, quello a cui era toccata in
sorte la tunica inconsutile, avendo udito il gemito di Gesù, mosso forse da
compassione, prese una spugna, la inzuppò nel vaso dove i soldati tengono la
loro bibita dissetante (acqua e aceto), la infilzò sulla sua asta militare e la
avvicinò alle labbra del Signore. Gesù succhiò qualche goccia, poi: “Basta così”, sussurrò e, chiusi gli
occhi come se volesse concentrarsi interiormente, aggiunse: “Tutto è compiuto!”.
Seguì un silenzio denso di mistero. Noi eravamo diventati
muti, non avevamo più parole. La tristezza e la rassegnazione avevano
intorpidito il nostro animo, e non aspettavamo altro che la fine. Maria, in
mezzo a noi, continuava ad essere assente; guardava Gesù con occhi di dolore e
di tenerezza, e ogni tanto li chiudeva come se interiormente qualcuno la
chiamasse, o altri pensieri la portassero lontano. E in verità solo lei, la
Madre degli uomini, poteva in quel momento misurare la dimensione universale ed
eterna di ciò che stava accadendo sotto i nostri occhi, la portata cosmica di
quel sacrificio tremendo e doloroso, l’abisso dell’amore salvifico nel suo Gesù
crocifisso.
Anche la percezione del tempo era venuta meno; non sapevo
rendermi conto da quanto tempo eravamo lì, né che ora fosse. Il sole era
scomparso coperto dalla caligine, e noi non avevamo altri riferimenti. Nemmeno
la stanchezza e il peso delle emozioni bastavano a darci la misura delle ore
trascorse. Del resto, dentro di noi era ormai rimasto un unico desiderio: che
tutto quello strazio finisse, dal momento che né un gesto miracoloso, né una
dimostrazione del suo potere divino era più pensabile da parte di Gesù. Non
restava perciò che augurarsi che tutto quel dolore avesse termine. D’altra
parte, Gesù stesso aveva fatto capire chiaramente che quella era l’ora della
sua totale immolazione, che la sua missione doveva passare attraverso il
sacrificio di sé stesso, sebbene per gli Apostoli e i discepoli tutto restasse
inspiegabile e incomprensibile.
Perciò quel “Tutto è
compiuto!” che Gesù aveva proferito ci fece capire che si era arrivati
ormai alla conclusione: tutto quello che egli doveva fare, l’aveva fatto, non
gli restava che consegnarsi definitivamente alla morte, o meglio, alla volontà
del Padre. Io poi mi chiedevo, in cuor mio, come avesse potuto resistere tanto,
dopo tutto quello che aveva sopportato e sofferto. Restava tuttavia in me
l’ansia angosciante per il momento finale perché non sapevo come e con quale
violenza si sarebbe compiuto.
Perciò, pur non sorpreso, fui colto da spavento, quando
improvvisamente vidi Gesù drizzarsi, scosso da un sussulto come se si
svegliasse dal sonno, sollevarsi con tutta la forza delle braccia, alzare il
volto e gli occhi verso il cielo e, cavando dal petto tutta la voce che gli era
rimasta, gridare: “Padre, nelle tue mani
affido il mio spirito!”. Fu un grido immenso che sembrava scuotere la terra
e lacerare il buio del cielo. Mi penetrò nelle ossa come un brivido. Dopo quel
grido, Gesù emise un grande respiro e restò per qualche istante immobile. Poi,
di colpo, crollò su sé stesso violentemente: si era consegnato alla morte.
Tutto il suo corpo ebbe un forte contraccolpo e la croce oscillò cigolando.
Dalle ferite uscirono gli ultimi rivoli di sangue. Aveva gli occhi socchiusi,
la bocca leggermente aperta e il capo, reclinato a sinistra, appoggiato sul
petto.
In quello stesso momento si udì nell’aria un immenso boato
che si diffuse in lontananza, moltiplicato da echi sordi e minacciosi, e la
terra, sotto i nostri piedi, fu attraversata da un brivido improvviso e
violento. La scossa fu tale che la roccia del Cranio si aprì trasversalmente
con una fenditura che lasciò atterriti anche i soldati di guardia. I cavalli si
spaventarono e, drizzandosi sulle zampe posteriori, lanciavano in aria alti
nitriti, e solo l’abilità del centurione riuscì a calmarli. I soldati da parte
loro balzarono in piedi, e guardandosi intorno frastornati, misero mano alla
spada. Un senso di panico ci prese tutti e istintivamente ci stringemmo gli uni
agli altri, vicino a Maria. Gli ultimi superstiti della plebaglia e i Giudei
che erano rimasti si diedero alla fuga precipitosamente, dileguandosi; anche
alcuni passanti che si erano uniti alla folla e alle sue imprecazioni,
atterriti da quanto accadeva, si allontanarono invocando Jahvé, appellandosi
alla sua clemenza e al suo perdono.
Dopo qualche istante tornò il silenzio: non una voce, non
un grido, non un rumore; tutte le cose intorno a noi si erano fermate, era come
se si fosse spenta la vita. L’oscurità s’era fatta più intensa e tuttavia i
corpi risultavano ben visibili, come se fossero illuminati. Quello di Gesù,
appariva in alto con una appariscenza strana che lo rendeva più evidente, quasi
luminoso, e occupava il centro di tutto lo scenario circostante. Era un corpo
esangue, senza vita; sul suo pallore le piaghe e le ferite risaltavano come
sigilli di dolore su una carne lacerata. E tuttavia erano per me come rubini
preziosi, come bocche ardenti che parlavano d’amore. Il volto appariva disteso
in una pace profonda e sovrumana: non una ruga, non una piega di dolore, non
una smorfia di sofferenza. Sotto la maschera di un corpo straziato e vilipeso,
traspariva integra tutta la nobiltà, la dignità e la maestosità di una figura
che aveva affascinato le folle della Galilea e della Giudea, uomini e donne di
ogni età e condizione, peccatori di tutte le categorie che in lui avevano
incontrato la misericordia.
3.. VENERDI’ SANTO LA
SANTA CROCE
“Un soldato gli aprì il costato” Quando i fenomeni che ci avevano disorientati e
atterriti cessarono, l’atmosfera cominciò lentamente a rischiararsi; era una
luce strana che proveniva dall’aria stessa e non dall’esterno. Anche noi
tornammo lentamente alla nostra realtà, e ci guardammo come per interrogarci su
che cosa fare. Intanto il centurione, salito sul suo cavallo, si accingeva a
rientrare in città per riferire a Pilato tutto l’accaduto. Passando davanti
alla croce di Gesù, si fermò, alzò lo sguardo verso il Crocifisso e stette in silenzio
qualche minuto. Poi si voltò: “Quest’uomo,
- disse con voce grave e ferma che rivelava la sua assoluta convinzione - quest’uomo era davvero un giusto; forse per
davvero un figlio di Dio!”.
A quel punto Giuseppe d’Arimatea, che aveva già pensato in
cuor suo come provvedere alla sepoltura del Signore, domandò al centurione di
accompagnarlo da Pilato per chiedere la restituzione del corpo di Gesù, e
impedire così che venisse gettato nella fossa comune riservata ai condannati.
Noi, per tutto quel tempo, restammo lì, in silenzio e in attesa. Dentro di noi
era subentrato un senso di riposo e di pace: finalmente tutto quel dolore era
finito! Ora non restava che ci venisse restituito Gesù; quel corpo adorabile e
martoriato doveva tornare nostro, totalmente e solamente nostro, e per sempre.
Intanto arrivarono i messi dei Sommi Sacerdoti; dovevano
verificare che tutto fosse stato portato rigorosamente a termine secondo i loro
programmi. Quel sopralluogo così tempestivo e minuzioso nascondeva
un’inquietudine, una paura che minava la certezza della loro vittoria. La paura
divenne sospetto quando seppero che Pilato aveva concesso ai discepoli,
attraverso Giuseppe, il corpo di Gesù. D’altronde volevano chiudere in fretta
tutta la faccenda, e perciò essi stessi si erano recati da Pilato perché
ordinasse ai soldati di accelerare la morte dei condannati e di toglierne i
cadaveri prima del tramonto, perché non venisse profanato il giorno solenne
della Pasqua.
Poco dopo arrivò anche Giuseppe d’Arimatea con
l’autorizzazione sigillata di Pilato. Era accompagnato da un servo che portava
un grosso rotolo di lino nuovo, un sudario e un corredo di fasce: quanto poteva
servire per la sepoltura. A breve distanza lo seguì un centurione con un
drappello di soldati armati di mazze e di clave. Il centurione osservò
attentamente i condannati e diede ordine ai soldati di applicare il crurifragio
ai due ladroni i quali, nonostante le loro disperate condizioni - sembravano
assopiti in coma profondo -, davano ancora evidenti segni di vita. Infatti, ai
colpi di clava e di mazza, violenti e spietati - si udì chiaramente il crac dei
femori spezzati -, i due crocifissi gettarono un grido simile a un lungo gemito
che andò lentamente spegnendosi. Le donne, Giovanni e io, ci eravamo
allontanati di qualche metro e avevamo rivolto lo sguardo altrove per non
assistere a quella crudeltà che ci provocava orrore e turbamento.
Ma la nostra preoccupazione riguardava soprattutto la sorte
che sarebbe toccata a Gesù. Allora Nicodemo e Giuseppe si avvicinarono al
centurione e parlarono con lui. Gesù era morto veramente e perciò non c’era
bisogno del crurifragio. Il centurione acconsentì; egli aveva assistito
all’incontro di Giuseppe con Pilato il quale, con gesto magnanimo, col quale
forse intendeva risarcire la sua coscienza, gli aveva concesso il corpo di Gesù
senza alcun compenso, che di solito era pesantissimo; anzi, l’aveva trattato
con rispetto e attenzione. Perciò il centurione si sentì in dovere di essere
anche lui disponibile verso Giuseppe, e volle accettare la sua richiesta, ma
aggiunse che non intendeva incorrere in sanzioni per non aver osservato
l’ordinanza di Pilato. Perciò chiamò un soldato esperto di queste operazioni
affinché applicasse a Gesù il colpo di lancia al cuore. Ci avvicinammo tutti al
centurione pieni di trepidazione; volevamo assistere a quell’intervento che ci
riempiva di tremore. Il soldato salì a cavallo e si avvicinò alla croce. Puntò
la lancia fra due costole nella parte destra del petto del Signore, poi con un
colpo secco e deciso spinse la lancia in direzione del cuore verso sinistra,
dal basso verso l’alto.
Maria, che dopo la crocifissione non aveva più parlato ed
era rimasta assorta in un silenzio contemplativo che invitava ciascuno di noi
all’amore e al dolore, mormorò con voce piena di affetto: “Figlio mio! Gesù, Figlio mio!”, e quando il soldato estrasse
lentamente la lancia dal petto di Gesù, vedemmo uscire un rivolo di sangue
ancora vivo seguito da un rivolo di plasma, chiaro e lattiginoso, segno che la
lancia aveva raggiunto il cuore alla punta e l’aveva squarciato completamente.
Un sospiro di pena e insieme di sollievo uscì da tutti noi, mentre il fiume
delle lacrime riprese a scorrere dai nostri occhi che ormai da alcune ore non
riuscivano più a piangere.
In verità, mentre il crurifragio dei due ladroni ci aveva
così profondamente turbato da non sopportarne la vista, il colpo di lancia al
cuore di Gesù fu per noi un gesto che ci commosse intensamente. Non orrore, non
fastidio o raccapriccio, ma commozione, quasi tenerezza. Forse perché sapevamo
che Gesù era morto e non poteva ormai soffrire più, forse perché il suo cuore
squarciato ci richiamava il suo indicibile amore, sta di fatto che le nostre
lacrime erano lacrime di pace, di sollievo, di affettuosa tenerezza. Fu istintivo
per tutti stringerci vicino a Maria che ci guardava commossa, mentre le lacrime
stillavano dai suoi occhi pieni d’amore.
Incominciarono allora le operazioni per la deposizione del
corpo di Gesù dalla croce. (…)
Il tempo per fare tutto era effettivamente poco.
Fortunatamente Giuseppe d’Arimatea aveva già pensato in cuor suo ad ogni cosa:
aveva deciso di mettere a disposizione la sua tomba nuova scavata nella stessa
roccia del Calvario; era situata nel podere di sua proprietà, che si estendeva
subito dopo il Golgota, lungo le mura della città. Giuseppe era un uomo
meraviglioso; fu una vera provvidenza in tutte le vicende della Passione e
della morte di Gesù. Aveva un carattere pratico, deciso; era generoso e si
muoveva con molta libertà di fronte ai capi del Sinedrio. Era legato da
profonda amicizia con Nicodemo. Era stato infatti Nicodemo a parlargli di Gesù
e a farglielo conoscere.
L’abbraccio
della Madre - La “Pietà” Arrivò così il momento più commovente, quello
in cui, dopo essere stato schiodato e deposto dalla croce, potemmo avere nelle
nostre mani il corpo santo e benedetto di Gesù. Il nostro cuore fu preso da
un’indicibile commozione e ci batteva forte nel petto: finalmente Gesù tornava
nostro. Il desiderio incontenibile di accarezzarlo, di avvolgerlo nelle nostre
mani calde di pietà e di tenerezza, e ripagarlo di quanto le mani dure e
impietose dei carnefici gli avevano inferto, trovava finalmente modo di
effondersi in tutte quelle manifestazioni di pietà e di devozione che il cuore
ci suggeriva.
Disteso per terra sopra un telo, Gesù fu preso tra le
braccia da Maria che, in ginocchio, seduta sui talloni, lo teneva dolcemente
sul suo grembo. Il suo sguardo scorreva lentamente dalla testa ai piedi e poi
dai piedi alla testa come se volesse percorrere con il suo infinito dolore le
tracce lasciate dalla furia degli uomini. Con la mano prese il braccio di Gesù,
se lo portò alle labbra e sul foro del chiodo depose un bacio ardente e tenero
pari all’intensità del suo amore materno. Aveva cessato di piangere, ma i suoi
occhi, pur segnati da un dolore immenso, conservavano la dolcezza e la
profondità di un tempo.
Maddalena, inginocchiata accanto a Maria, volle per sé il
privilegio di liberare Gesù dalla corona di spine. Con fatica la sfilò usando
ogni precauzione e delicatezza per non lacerare la pelle già livida, la
disincagliò dai capelli impregnati dei grumi di sangue, di sudore rappreso e di
polvere; si guardò intorno e, vedendomi lì vicino, la consegnò a me come se mi
affidasse un tesoro, poi prese tra le sue mani la testa di Gesù con un gesto di
indicibile tenerezza, e appoggiando le labbra su quella fronte martoriata, la
coprì di baci con l’amore ardente del suo cuore ferito e innamorato.
Myriam e Salome, da parte loro, cercavano di tergere quelle
membra santissime offese e insudiciate dagli sputi, dal fango e da altra
sporcizia; sulle piaghe poi, passarono con estrema delicatezza, leggermente,
quasi evitandole, come se si trovassero di fronte a qualcosa di intangibile e
di santo da trattare con sommo rispetto. D’altronde non restava tempo per
lavare il corpo di Gesù e prepararlo per una definitiva sepoltura. Ormai
incalzava il tramonto, le guardie e i vari inservienti premevano con urgenza, e
alcuni sinedriti in rappresentanza dei Sommi Sacerdoti volevano assistere alla
sepoltura e vedere dove lo avrebbero messo.
Nicodemo e Giovanni erano già tornati accompagnati dai
garzoni che recavano una grossa quantità di aloe e di mirra. Allora Giuseppe
fece collocare il lungo lenzuolo di lino impregnato di aromi sopra la stuoia, e
su una metà di esso fece deporre il corpo di Gesù. Le donne composero quel
corpo amatissimo con estrema cura: gli riordinarono i capelli, tolsero il
piccolo grembiule e gli incrociarono sul davanti i polsi e le mani. Prima di
ricoprirlo con l’altra metà del lenzuolo, gli tributarono un ultimo gesto di
devozione e di affetto: Myriam e Salome gli baciarono i piedi, la Maddalena gli
accarezzò i capelli e lo baciò sulla fronte, infine Maria piegandosi sulle
ginocchia, appoggiò le labbra sul petto del Signore baciando lo squarcio ormai
esangue del costato.
Giovanni stava vicino a Salome; io, che mi trovavo dietro a
Maria e tenevo avvolta nel velo della Maddalena la corona di spine, non potei
fare nulla, solo mi sfuggì a fior di labbra: “Gesù, ti aspetto! Torna presto!”. Non so perché, ma in me
avvertivo la convinzione che Gesù non poteva finire così. Del resto, Gesù ci
aveva detto tante volte: “Tornerò a voi…
mi vedrete di nuovo… vi attendo in Galilea…”; e anche Maria aveva saputo conservare,
pur in mezzo a tanto dolore, una
grande serenità, segno che in lei non c’erano pensieri di disperazione come se
tutto fosse finito.
Intanto le operazioni di sepoltura continuarono all’insegna
dell’urgenza. Totalmente avvolto nel lenzuolo, il corpo di Gesù venne fasciato
con larghe bende inzuppate di aromi. Il suo volto fu poi ricoperto da un
sudario. Così preparato, fu sollevato con la stuoia e trasportato dentro il
giardino, lontano pochi metri, e fu deposto davanti al sepolcro. Era, quel sepolcro,
una tomba scavata nella roccia stessa del Golgota, con un vestibolo e una
camera funeraria provvista di un tavolo di pietra. Su quel tavolo fu deposto il
corpo di Gesù. I sinedriti che, senza dire una parola, avevano seguito tutte le
operazioni di sepoltura, vollero entrare nel sepolcro per rendersi conto di
tutto. Allora anche le donne entrarono e vollero vedere dove e come era stato
posto Gesù. Avevano infatti preso accordi tra loro con l’intenzione di tornare,
dopo il sabato, a completare le operazioni di sepoltura, forzatamente
affrettate, con l’aggiunta di altri aromi, a sostituzione di quelli che durante
il sabato sarebbero evaporati.
Prima che fosse chiuso il sepolcro, Maria chiamò Giuseppe e
gli manifestò il desiderio che nel sepolcro fossero collocati anche i due pali
della croce. Era l’unica cosa rimasta a Gesù. Quella croce gli apparteneva, ed
era giusto perciò che fosse chiusa con lui nel sepolcro. Inoltre quel legno era
inzuppato del suo sangue, il sangue di suo Figlio, il sangue prezioso sparso
per liberare il mondo dai suoi peccati, il sangue che lei, la Madre, gli aveva
dato un giorno portandolo in grembo. Il desiderio di Maria fu subito accolto da
tutti con commozione. Giuseppe mandò a prelevare la croce - sul Golgota non
c’era ormai più nessuno - e la fece collocare nel vestibolo del sepolcro. Al
suo passaggio Maddalena la baciò e la abbracciò con tutto il trasporto del suo
animo appassionato.
Giuseppe d’Arimatea, poi, fece chiudere il sepolcro con la
grossa pietra che era stata preparata e, raccolta ogni cosa - di Gesù non era
rimasto più niente: non la veste, non il mantello, non la tunica, non i
sandali, nulla, solo la corona di spine - ci avviammo per rientrare in città.
Il sole era scomparso dietro l’orizzonte come se fosse andato a riposare dopo
la giornata più lunga e faticosa di tutta la sua storia. Ma anche Gesù aveva
trovato finalmente, nel sepolcro, il riposo dalle sue fatiche e dalle sue
sofferenze. Del resto, anche per noi, il riposo sabbatico arrivava come un dono
provvidenziale e benefico.
La
Croce
Gesù, ora davvero tutto è compiuto!
“Consummatum est!” I cieli e la terra ti hanno contemplato appeso a quel legno.
Ora giaci nel sepolcro, e quel sepolcro chiuso e sigillato vuol significare che
tutto è davvero compiuto. La missione ricevuta dal Padre e iniziata nel grembo
di Maria quando hai detto: “Vengo, o Padre, a fare la tua volontà” ha raggiunto
oggi su quella croce il suo sublime compimento. Tutto è dunque compiuto, ma non
tutto è finito.
Quella croce, anche se
tolta dal Calvario, rimarrà ormai per sempre piantata nella carne della terra,
e proietterà la sua ombra sul tempo e sulla storia umana, un’ombra gigantesca,
sempre più grande lungo i secoli. La tua croce, da segno di maledizione, è ora
pegno di benedizione per tutta l’umanità. È l’Albero della Vita, il legno da
cui sgorga il fiume della Misericordia. La tua Chiesa sarà così il “Popolo
della Croce”, e porterà la croce lungo tutti i cammini della terra come un
vessillo regale. La croce sarà il sigillo con cui Dio firmerà le sue opere.
Gesù, non tutto è
finito. La tua croce continuerà a cercare non solo il suo “cireneo” che la
porti e la pianti sulla cima di tutte le attività umane e la inscriva nelle
viscere del mondo, ma anche il suo crocifisso che venga a “completare nella sua
carne ciò che manca” alla tua passione. Gesù mio, non tutto è finito. La tua
passione continuerà nella tua Chiesa e continuerà nella vita di ogni discepolo
che vorrà seguirti.
“La Croce sul tuo
petto?… - Bene. Ma… la Croce sulle tue spalle, la Croce nella tua carne, la
croce nella tua intelligenza. - Così vivrai per Cristo, con Cristo e in Cristo”
(Cammino n. 929).
“Quando vedi una povera
croce di legno, sola, senza importanza e senza valore … e senza Crocifisso, non
dimenticare che quella Croce è la tua Croce, quella di ogni giorno, quella
nascosta, senza splendore e senza consolazione…, che sta aspettando il
crocifisso che le manca: e quel crocifisso devi essere tu”. (Cammino n. 178).
Gesù, sono queste le
verità che devo capire, le verità che devo vivere. Ecco perché non tutto è
finito. “Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me!”. Un giorno,
quando scriverà il suo Vangelo, Giovanni, testimone con noi della tua
crocifissione, ricorderà un’espressione del Profeta Zaccaria: “Guarderanno a
colui che hanno trafitto”. Guarderanno a te, sospeso alla croce non dai chiodi,
ma dall’amore. Guarderanno a te innalzato da terra e saranno attirati al tuo
amore. Gesù mio, su quel legno che ti tiene innalzato da terra, trono e altare,
tu resterai per sempre l’icona del dolore e della speranza umana. Davanti a te
sfileranno gli uomini di tutti i tempi: per molti sarai uno scandalo, una
provocazione alla loro intelligenza; per altri sarai una pazzia, un assurdo per
la loro mentalità mondana; per molti altri sarai il libro sul quale hai scritto
col tuo sangue l’amore e la misericordia del Padre. Un libro sempre aperto come
le braccia che tieni spalancate verso il cielo e verso gli uomini. Su quel
libro innumerevoli anime impareranno a conoscere l’amore, il sacrificio, il
dono totale di sé; sulle tue piaghe aperte tutti noi potremo leggere il nostro
nome e la nostra vita. Le tue ferite saranno il luogo del nostro riposo e della
nostra pace.
Le tue ferite. Cinque
fenditure immense nella roccia della tua carne; cinque sigilli di autenticità
per il mondo intero. Per farti riconoscere dai tuoi Apostoli, mostrerai le
mani, i piedi e il costato: le cinque lettere della parola: Amore.
La ferita della tua mano destra: quella mano che ha accarezzato bambini e innocenti, che è
passata come balsamo su membra doloranti e corpi sofferenti, che ha sollevato
la Maddalena e tante anime ferite dalla contrizione e dall’amore, che tante
volte si è posata dolcemente sul capo di Giovanni, quella mano che ha
beneficato tutti spargendo su tutti misericordia e salvezza.
La ferita della tua mano sinistra: quella mano che ha cacciato con forza i demoni, che ha
domato il furore delle tempeste, che si è alzata contro i venditori del Tempio,
quella mano che ha tremato di tristezza nell’offrire il boccone al traditore
svelato.
E poi le ferite dei tuoi piedi: quei piedi che si sono affaticati sulle strade della
terra in cerca degli uomini in fuga dalla casa paterna; che si sono impolverati
e feriti sulle pietre della via dolorosa, i piedi che lacrime di pentimento
hanno lavato, che baci ardenti hanno fasciato d’amore, che olio di nardo
prezioso ha impregnato di devozione; i piedi di Dio, i piedi che “hanno aperto
i cammini divini della terra”, che hanno lasciato orme di luce e di amore a
quanti vorranno seguirti per annunciare agli uomini la salvezza e la pace.
E infine la grande ferita del tuo costato: la fenditura immensa spalancata sull’abisso della
misericordia, la fenditura che conduce al Cuore di Dio, all’intimità con la
vita trinitaria. Dal tuo cuore squarciato sgorga l’acqua viva della Grazia e
della salvezza. “Guarderanno a Colui che hanno trafitto…”, “Chi ha sete venga a
me e beva, chi crede in me”. Guarderanno a te con lo sguardo della fede, con
gli occhi del cuore. Davanti al tuo cuore trafitto non è possibile non credere.
Chi non ha fede è perché non ha guardato a te, trafitto sulla croce. Giovanni,
che era lì testimone, ha “visto” quel colpo di lancia e lo ricorderà agli
uomini perché credano.
Gesù mio, dentro le tue piaghe troveremo
rifugio, troveremo la forza per la nostra debolezza, riposo per le nostre
fatiche, sicurezza nei nostri dubbi, conferma per la nostra speranza, luce,
conforto e gioia per la nostra anima. Gesù, guarderemo a te crocifisso per
compiere anche noi la volontà del Padre, per morire anche noi alle opere della
carne, per dare anche noi la vita per i nostri fratelli. Guarderemo a te
crocifisso per capire che c’è un senso nel nostro dolore, che c’è fondamento
alla nostra gioia, e una meta luminosa per la nostra speranza. Guarderemo a te
crocifisso per capire che “Dio è Amore”.
101 - Cristo, la nuova Pasqua, è stato immolato Quel venerdì sera fu per tutti un venerdì
pasquale. In moltissime case di Gerusalemme le famiglie erano riunite per
celebrare la Pasqua. Stavano consumando la cena dell’agnello che era stato
sacrificato nel Tempio. (…) Tutti erano tornati alle loro case e sulla città
era sceso il silenzio. Era il silenzio della sera di Pasqua e del riposo
sabbatico. Ma per noi riuniti nella casa di Marco quel silenzio era un silenzio
di lutto. Il clima che si respirava in casa era di tristezza e di sconcerto.
Tutto era avvenuto così in fretta da non aver avuto nemmeno il tempo di
renderci conto se c’era un motivo o un significato in tutta quella vicenda. Gli
uomini avevano distrutto i nostri sogni; ci era stato tolto colui che per noi
era tutto, il nostro futuro, la nostra certezza, la nostra speranza, il nostro
amore, la persona alla quale avevamo ormai legato la nostra vita. In casa s’era
fatto il vuoto, e dentro di noi il buio.
A rompere quel silenzio fu ancora una volta Maria. Ci
raccolse tutti intorno a sé - Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea erano tornati alle
loro case per mangiare la Pasqua - e, rivolgendosi soprattutto agli Apostoli: “Figli miei, - cominciò - la gente sta celebrando la Pasqua nelle
proprie case. Questa Pasqua, - voi lo sapete - Pasqua che celebriamo ogni anno,
ricorda l’Alleanza stipulata da Dio con i nostri Padri quando il Signore li ha
liberati dalla schiavitù. Oggi però è stata celebrata la nuova Pasqua, quella
vera; l’ha celebrata lui, il nostro Gesù. Quella di oggi è stata la sua Pasqua.
Quel Gesù che abbiamo visto appeso alla croce, aveva le sembianze dell’agnello.
Il Signore ci ha fatto capire, oggi, che la nostra Pasqua è Gesù, è lui
l’Agnello di cui parlava Giovanni ad alcuni di voi quando battezzava nel
Giordano: l’Agnello che toglie il peccato del mondo. Gesù stesso, ieri sera, ci
parlò del suo sangue come segno della nuova Pasqua, la nuova Alleanza che Dio
ha voluto stringere col suo popolo. Oggi dunque su quella roccia del Calvario è
stata celebrata la vera Pasqua. Non sappiamo come, ma Dio libererà Gesù dalla
morte. Figli miei, avete un giorno creduto in Gesù? Continuate, anche ora, a
credere in lui!”.
La voce di Maria era attraversata ogni tanto da un tremito
di commozione, ma conservava nello stesso tempo un tono di fermezza, di
assoluta convinzione che voleva trasmettersi al cuore di tutti noi. Tuttavia
ebbi la netta impressione che le sue parole cadessero nel vuoto, o suonassero
agli orecchi degli Apostoli come una lingua sconosciuta. I loro occhi erano,
sì, fissi su Maria, ma lo sguardo era quello immobile di chi è smarrito o
assente. Non che non volessero ascoltare, di fatto però erano in condizioni di
non poter ragionare su quanto era accaduto, e tanto meno erano in grado di
comprenderne il significato, se un significato c’era.
Inoltre sulla loro faccia si leggeva ancora l’umiliazione
per il comportamento che avevano tenuto in quella notte: la paura, la fuga, l’abbandono
di Gesù. Questo stato d’animo lo si avvertiva chiaramente nella domanda che
Filippo, dopo qualche attimo di silenzio, rivolse a Maria: “Che cosa dunque dobbiamo fare?”. La risposta di Maria fu pronta e
precisa: “Dobbiamo fare quello che Gesù
ci ha detto”. E poiché lì per lì non riuscivano a discernere, fra le tante
cose che Gesù aveva detto, quella a cui Maria si riferiva, lei aggiunse: “Dobbiamo tornare in Galilea. Là Gesù ha
detto che ci avrebbe preceduto; e là noi dobbiamo andare”. Taddeo e Simone,
i cugini di Gesù, osservarono: “Perché
proprio in Galilea? Che cosa diremo agli abitanti di Cafarnao, di Nazareth e di
Betsaida, e ai nostri parenti e ai nostri amici e ai conoscenti? Essi ci
prenderanno in giro, diranno che siamo stati sciocchi, ingenui, che ci siamo
lasciati ingannare stupidamente”.
Pietro ebbe uno scatto, e rivolto ai due discepoli: “Siamo già stati vili una volta, - disse
- vogliamo continuare ad esserlo? Faremo
quello che la Madre di Gesù ci ha detto”. Maria guardò Pietro con un sorriso
pieno di affetto, e soggiunse: “Proprio
così, Pietro, proprio così. Vi ho detto di continuare a credere in Gesù; non
temete dunque e, come vi ha detto Gesù stesso: ‘Non si turbi il vostro cuore!’.
E ora andiamo tutti a riposare; ne abbiamo davvero bisogno. Domani il Signore
provvederà”.
SABATO SANTO:
L’ATTESA
Il
sabato dopo la sepoltura Quel sabato vide il “riposo di Dio”. Dal giorno
della creazione nessun altro sabato conobbe un simile “riposo”. Gesù, Figlio di
Dio, Verbo del Padre, colui per il quale tutto è stato creato, giaceva nel
sepolcro. Era stata portata a termine la Redenzione. Tutto dunque era compiuto,
il tempo era chiuso, non restava che attendere l’eternità. Tutto questo lo
sappiamo ora, ma in quel giorno ben altri sentimenti occupavano il nostro
cuore. Quanti eravamo nella casa di Marco ci sentivamo in balia dei pensieri
più diversi. I discepoli consideravano ormai definitivamente crollato il
progetto di Regno che essi avevano accarezzato in cuor loro; a quel punto, eravamo
tutti convinti che l’unica cosa che potevamo fare era di tornare in Galilea,
come Maria ci aveva ricordato, e attendere.
Attendere! In mezzo a quella repentina e assurda catastrofe
era questa l’unica cosa che riuscivamo a capire. Attendere, perché eravamo
convinti che sulle ceneri delle nostre speranze e dei nostri progetti qualcosa
doveva nascere, qualcosa doveva accadere. Non poteva essere un inganno o
un’illusione tutto quello che avevamo visto e udito in Gesù; due anni e mezzo
di meraviglie, di prodigi, di sapienza così nuova e così alta, non potevano
essere cancellati in quel modo. I discepoli tuttavia non riuscivano a dire una
parola su tutto questo, si sentivano vuoti e come storditi, e d’altra parte non
avevano la più pallida idea di ciò che li attendeva.
Conoscendo Gesù fin dalla nascita e avendo assistito ai
fatti più importanti della sua vita, quelli segnati dal sigillo del Padre e dal
soffio dello Spirito, io ero sicuro che le cose non sarebbero finite lì, ma
cercavo di saperne di più. Perciò durante quel sabato mi tenni il più possibile
vicino a Maria; speravo di cogliere da lei qualche accenno su quello che
sarebbe accaduto dopo tutto il dolore e tutte le lacrime del giorno precedente.
Sì, dovevamo andare in Galilea e attendere, ma attendere che cosa? Attendere
Gesù? Sarebbe forse risorto anche lui alla maniera di Lazzaro? Sarebbe poi
venuto in Galilea da solo o accompagnato da qualcuno? E avrebbe ricominciato lì
il suo ministero? In che modo?... Queste e molte altre erano le domande che si affollavano
alla mia mente e che erano nascoste in quell’attesa. Ma da Maria non una
parola, non un cenno. Era in mezzo a noi la più serena; si preoccupava di
tutti, cercava che fossimo fiduciosi e uniti, e anche che ci riposassimo e ci
rifocillassimo; era lei l’unica che in mezzo a quella catastrofe conservava la
fede. Tuttavia nessun accenno da parte sua a una qualche previsione.
Notizie ci giunsero invece da fuori. Nel tardo pomeriggio
arrivò da noi Giovanna, la moglie di Cusa. Era molto agitata e impensierita. Ci
disse che era passato da lei Giuda in preda a una forte agitazione; aveva la
borsa con molto denaro e voleva consegnarla a lei, ma ella non sapendo che cosa
pensare, aveva rifiutato di accettarla e gli suggerì di usare il denaro, come
tante volte aveva detto lui stesso, per i poveri. Se n’era andato, sconvolto.
A completare le notizie, arrivò poco dopo Nicodemo. Veniva
dal Tempio dove si era incontrato con i sacerdoti e con gli altri del Sinedrio;
si mostravano tutti preoccupati come se una strana inquietudine li avesse
contagiati. I sacerdoti in particolare apparivano profondamente turbati e
scossi da quanto era accaduto la sera precedente. Era accaduto che verso l’ora
nona, l’ora della morte di Gesù, si era udito un sordo boato che scosse le fondamenta
del Tempio, e un bagliore simile a uno strano lampo si era abbattuto sulla
parte più interna del Tempio. Dopo qualche esitazione il sacerdote di turno
entrò nel “Santo” dove si trova l’altare dell’incenso per il sacrificio
vespertino; enorme fu la sua sorpresa quando vide lacerata da cima a fondo la
cortina che separava il “Santo” dal “Santo dei Santi”, che è l’aula più interna
e più sacra del Tempio. Era come se fosse stata annullata la separazione, che
doveva essere rigorosissima, tra i due luoghi più sacri del Tempio. Quella
cortina, impressionante per la grandezza e preziosità, era di un tessuto
spesso, pesante, tutta ricamata d’oro, difficilissima quindi da lacerare.
Perciò nei sacerdoti, allo stupore si aggiunse il tremore, come se una oscura minaccia
gravasse sul Tempio.
I Sinedriti, invece, erano interessati a un ben diverso
problema. Si erano riuniti per deliberare su una questione, a loro parere,
importantissima: si ricordarono che Gesù aveva parlato di risurrezione e,
poiché lo giudicavano un impostore, temevano un colpo di mano da parte dei
discepoli, che avrebbero potuto far sparire il corpo di Gesù dando adito alla
falsa notizia della sua risurrezione. Deliberarono quindi di inviare una
richiesta a Pilato perché sigillasse il sepolcro e vi mettesse a guardia un
picchetto di soldati. Dopo quello che aveva concesso, Pilato non ebbe alcuna
difficoltà a concedere anche questo.
“Stavo uscendo da
quell’incontro -
continuò Nicodemo - quando vidi Giuda
arrivare di corsa; era trafelato e sconvolto da mettere paura. Lo chiamai:
‘Giuda!’, ma non rispose. Si infilò dov’erano i sacerdoti gridando: ‘Ho
tradito! Ho tradito l’innocente! Prendetevi il vostro denaro, non voglio più
saperne!’, e agitava la borsa col suo peso maledetto. I sacerdoti lo guardarono
- era uno sguardo di ghiaccio - e con un sorriso tra il beffardo e il
compiaciuto: ‘Non è questo - dissero - il compenso che hai pattuito? Il nostro
impegno noi l’abbiamo assolto; il resto non ci interessa. Non è affare nostro’.
A quelle parole Giuda scagliò la borsa verso di loro con gli occhi divorati dal
rimorso. I sicli d’argento, usciti dalla borsa, sghignazzarono sul pavimento.
Avrei voluto fermare Giuda che, voltatosi, stava dandosi a una fuga disperata.
Ma sentivo su di me gli occhi dei Sinedriti pronti a giudicare ogni mia mossa
che fosse contraria alla loro legge. Perciò restai fermo, ma li guardai a uno a
uno in silenzio. Allora il principe dei sacerdoti: ‘È denaro di sangue, -
disse, facendo raccogliere le monete da un inserviente per non contaminarsi - non possiamo usarlo per il Tempio. Avevamo
il programma di acquistare un terreno per farne un cimitero per gli stranieri:
lo useremo per questo’.”. Nicodemo tacque, ma il silenzio della sala si
riempì di nuovi interrogativi e di nuovo tremore.
Verso sera arrivarono Marta e Maria di Lazzaro per prendere
accordi con Myriam e Salome su come completare la sepoltura di Gesù e avere
anch’esse la possibilità di vedere, almeno per l’ultima volta, il Maestro.
Sarebbero passate di buon mattino ad acquistare gli aromi necessari ed altre
bende per poi recarsi insieme al sepolcro. Maria seguiva tutti quei discorsi in
silenzio, continuando a occuparsi dei lavori di casa, e a incoraggiare Pietro e
gli altri. Alle donne suggerì soltanto di non fare troppe spese per la
sepoltura di Gesù, perché essa non esigeva più di quanto era già stato fatto.
Il giorno dopo ci rendemmo conto del perché di questa raccomandazione: Gesù non
ne avrebbe più avuto bisogno.
Alla sera ci invitò tutti alla preghiera. Scelse i salmi
della fiducia e della speranza. Alla fine ci distribuimmo tutti nelle varie
stanze, anche se quasi tutti eravamo ben poco convinti di poter prendere sonno.
Solo a tarda sera ebbe il sopravvento la stanchezza.
IL GRANDE GIORNO: LA
RESURREZIONE
Il
“grande giorno” n. 1 Alle prime luci dell’alba le donne erano già in
piedi e si affaccendavano nei loro preparativi per andare al sepolcro.
Sarebbero passate da Giovanna e con lei avrebbero fatto gli ultimi acquisti di
aromi e di quant’altro fosse necessario per completare la sepoltura di Gesù.
Quando partirono tornò il silenzio nella casa. Noi, ancora mezzo indolenziti e
sonnolenti, restammo nei nostri giacigli, tutti tacitamente d’accordo sul fatto
che dovevamo recuperare sonno e riposo.
Era rimasta in casa solo Maria la quale, come sempre, si
muoveva in silenzio, leggera come un angelo, per risparmiare rumori e fastidi
al nostro riposo. Nel frattempo si era adoperata a prepararci la colazione del
primo mattino.
Arrivarono intanto i primi raggi del sole e i primi rumori
del giorno che misero fine al nostro riposo notturno. Io, indossati in fretta
sandali e tunica, mi mossi subito cercando di lei, di Maria. Salii al piano
superiore, nella sala grande, il Cenacolo, sicuro che l’avrei trovata lì. Fu
così, infatti, ma arrivato sulla porta della stanza mi dovetti fermare: nel
vederla fui preso da uno strano senso di stupore e di trepidazione. Stava
accanto alla finestra, immobile, come estasiata. Era soprattutto la sua figura
a sorprendermi; sembrava un’altra persona: i suoi occhi scintillavano di gioia
e di tenerezza, il suo volto era illuminato da un sorriso che mi ricordava
quello del giorno dell’Annunciazione quando fu visitata dall’Angelo, tutta
l’espressione del suo viso tradiva una felicità intima e misteriosa che doveva
nascere da qualcosa di straordinario e di immensamente commovente.
Quando mi vide, mi venne incontro e, abbracciandomi forte: “Figlio mio, - cominciò - il nostro Gesù è ancora con noi! È ancora
con noi!... Lo vedrai presto! Lo vedremo tutti! Non dobbiamo più temere, non
dobbiamo più soffrire. Il dolore è finito, la paura è passata. Si è avverata la
sua promessa, si è compiuta la sua parola. Sia ringraziato il Signore, nostro
Dio, sia benedetto nei secoli! Egli ha realizzato per noi le meraviglie del suo
amore, ha fatto trionfare la sua potenza e la sua misericordia!”.
Mi parlava con una commozione vivissima e indescrivibile, e
nello stesso tempo, raccolta e dignitosa; non aveva nulla di scomposto e di
eccitato. Solo alcuni lagrimoni le rigavano le guance come stelle luminose che
brillavano di gioia. Stette in silenzio qualche istante; poi mi lasciò e si
recò di nuovo alla finestra spingendo lo sguardo in direzione del sepolcro, poi
verso il Tempio, poi in alto verso il cielo che andava tingendosi di rosa, poi
ancora verso il Monte degli Olivi, infine tutto intorno come se contemplasse un
panorama sconfinato o rileggesse in quei luoghi una struggente storia di dolore
e di amore. Tutt’intorno tripudiava una primavera che riempiva l’aria di
profumi e tingeva la luce di colori.
Venne di nuovo verso di me, si fermò a guardarmi con
infinita tenerezza e tornò ad abbracciarmi come se volesse trasmettermi la sua
gioia. Poi con voce sommessa, quasi mormorando, come se parlasse con sé stessa:
“Era bellissimo! - continuò - Bellissimo! I suoi capelli erano tersi e
splendenti, i suoi occhi traboccavano bontà e amore, le sue ferite erano pulite
e vive, la sua carne luminosa, la veste bianca e splendente! Era bellissimo!
Prese le mie mani fra le sue e le stringeva forte; erano ardenti e piene di
tenerezza. Le guardai intensamente: erano mani vere, in carne ed ossa. Me le
portai alle labbra coprendo le sue ferite di baci, finché Lui me le pose sul
capo benedicendomi e infine mi strinse forte al suo Cuore in un abbraccio di
paradiso. Era bellissimo!”.
Io, fino a quel punto, ero rimasto come interdetto, senza
parole e senza pensieri precisi. Approfittai allora di quella pausa per
chiederle che cosa mai significasse tutto questo e di che cosa intendesse
parlarmi. Allora, come se improvvisamente si svegliasse da un’esperienza
ineffabile e tornasse alla realtà: “Hai
ragione, figlio mio - disse sorridendomi - hai ragione! Ma lo saprai, saprai tutto molto presto”. Poi si
asciugò il volto, si ricompose nell’espressione e: “Andiamo, disse, andiamo a chiamare i tuoi amici. Hanno bisogno di
cominciare la giornata con una buona colazione!”.
Pur sapendo che tutto il suo discorso si riferiva a Gesù,
avrei voluto chiederle tante cose: “Com’era,
da dove era entrato e da dove era uscito, che cosa le aveva detto e perché non
s’era fatto vedere anche a noi...”; ma lei mi prese per mano e mi portò
verso l’uscita del Cenacolo.
Il
“grande giorno” (n. 2) Stavamo scendendo al piano inferiore, quando si
udirono pressanti colpi alla porta e la voce di Maddalena che chiamava con
insistenza. Andarono ad aprire Giovanni e la madre di Marco. “L’hanno portato via, l’hanno portato via!
- cominciò a gridare entrando tutta sconvolta - Il sepolcro è vuoto e chissà dove l’hanno messo!...”. Accorse anche
Pietro che cercò di calmarla per capire di chi stava parlando. Ma la sua
agitazione era incontenibile, e solo uno scoppio irrefrenabile di pianto mise
fine alle sue grida. “Di Gesù, capite?
- continuò dopo il primo sfogo - del suo
corpo! Il sepolcro è aperto e lui non c’è più!”. E riprese il suo pianto
dirotto.
Pietro e Giovanni si guardarono in silenzio e, come se si
fossero capiti, infilarono di corsa la porta e presero la strada che conduce al
sepolcro. Frattanto erano accorsi anche gli altri e facevano capannello intorno
alla Maddalena che, tra i singhiozzi, rispondeva alle loro domande con lo
stesso ritornello: “L’hanno portato via!”.
Intervenne la Madonna con Maria di Marco che aveva
preparato la prima colazione: latte fresco, focaccia di pane azzimo, frutta
secca e formaggi. L’invito a tavola incontrò il favore di tutti, e tutti si
avviarono parlottando e scuotendo il capo in riferimento alle “allucinazioni”
di Maddalena. Essa, con gli occhi gonfi di pianto, era andata a cercare qualche
parola di conforto o di chiarimento da Maria, ma prima ancora di riceverne
risposta, se n’era già andata correndo verso l’uscita.
I commenti dei discepoli continuarono, tutti improntati
allo scetticismo e alla incredulità, non senza qualche frecciata ironica verso
quella “esaltata” di Maddalena. Comunque ognuno cercava di esprimere una
propria interpretazione e suggeriva proposte sul comportamento da prendere. Ma
ecco improvvisamente arrivare il drappello delle altre donne capeggiato da
Myriam e Salome, anch’esse sconvolte e in preda a forte agitazione. Furono
immediatamente assalite da un fuoco di domande che si incrociavano da ogni
parte aggiungendo confusione allo sconcerto.
Intervenne allora di forza la padrona di casa, Maria di
Marco, imponendo il silenzio e chiedendo a Myriam di raccontare per filo e per
segno quello che era accaduto. Myriam, sforzandosi di contenere l’emozione,
cominciò a raccontare come, dopo essere uscite di casa, erano passate da
Giovanna per fare insieme le spese necessarie per completare la sepoltura di
Gesù, mentre Maddalena era corsa per conto suo al sepolcro. Dopo le opportune
spese, si diressero anch’esse al sepolcro, preoccupate di come poter levare la
pietra dall’imboccatura. Entrate nel giardino, restarono stupite nel vedere
intorno al sepolcro i resti di un bivacco militare, ma restarono ancora più
stupite nel constatare che il sepolcro era aperto, e la grossa pietra
dell’imboccatura rovesciata.
Prese da timore, non ardivano avvicinarsi al sepolcro,
anche perché esso appariva illuminato all’interno da due personaggi in vesti
sfolgoranti che sembravano fare la guardia. Uno di loro, uscito fuori: “Non abbiate paura, - disse con voce
invitante e amabile - voi cercate tra i
morti colui che è vivo, Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è più qui.
Entrate e guardate il luogo dove lo avevano deposto”. Così dicendo lasciò
libera l’entrata e sedette sulla grossa pietra.
Incerte e tremanti, Giovanna e Myriam si affacciarono a
guardare. Videro il sepolcro effettivamente vuoto; allora il personaggio
celeste che era seduto all’altro capo della tavola di pietra, le incoraggiò
dicendo: “Non vi ricordate quando, ancora
in Galilea, vi diceva che bisognava che egli fosse consegnato in mano ai
peccatori, e crocifisso, ma che sarebbe risuscitato il terzo giorno? Non
abbiate dunque paura!”. E subito l’altro angelo aggiunse: “Presto, andate a dire ai discepoli e a
Pietro che egli vi precede in Galilea”. A queste parole, tutte furono prese
da trepidazione e da gioia incontenibile e vennero di corsa a portare a tutti
l’inatteso e sconvolgente messaggio.
Durante il racconto di Myriam, le altre donne riuscivano
con fatica a trattenere la felicità che traspariva dai loro volti, mentre la
faccia dei discepoli, muta e immobile, esprimeva perplessità e scetticismo. A
riconciliare un poco gli animi, arrivarono a quel punto Pietro e Giovanni.
Effettivamente era vero: Gesù non era più nel sepolcro e, precisò Giovanni, non
poteva essere stato rubato perché le fasce erano intatte al loro posto e
afflosciate, e il sudario ancora come avvolto. Che cosa dunque era accaduto?
Giovanni in cuor suo era convinto della risurrezione di Gesù, ma gli altri
Apostoli continuavano ad arrovellarsi in mille domande, rimanendo sempre più
perplessi e confusi, combattuti tra speranza e scetticismo, senza approdare ad
alcuna certezza.
Fu in mezzo a tutto quel trambusto che irruppero in casa
Cleopa e Mattia; erano stravolti e costernati. Dopo i fatti di quei giorni,
avevano deciso di tornare a Emmaus, il loro paese di origine, convinti che
ormai era tutto finito. Avevano preso la strada che scende nella valle di
Hinnon e che poi risale verso occidente in direzione del mare. Erano arrivati
all’altezza della Geenna quando in un campo vicino alla strada notarono un
gruppo di persone che guardavano inorridite giù da una scarpata, ai bordi del
campo. Scesero anche loro per vedere di che si trattava. In fondo alla scarpata
si presentò ai loro occhi uno spettacolo orribile: aveva ancora il cappio
attorno al collo, gli occhi sbarrati, la lingua penzoloni, il viso cianotico e
il ventre squarciato, forse dai morsi degli sciacalli o di altri animali
notturni. Era quasi irriconoscibile, ma era proprio lui: Giuda.
Presi da orrore e raccapriccio, erano tornati per darne
notizia ai discepoli, e per ricevere da loro qualche parola di incoraggiamento.
Trovarono invece un ambiente surriscaldato, dove le notizie e i pareri più
contrastanti si incrociavano in tutte le direzioni, ma tutti all’insegna del
dubbio e dello scoraggiamento. Nemmeno la paura era del tutto passata, e ormai
non si aspettava altro se non il momento di tornarsene al sicuro in Galilea.
Le donne, in particolare, erano mortificate per la fredda
accoglienza riservata alla loro testimonianza e alle loro affermazioni. I più
ostinati demolitori di tutto erano Tommaso, Giuda Taddeo, Simone e altri,
vicini alla parentela di Gesù. Il più pensoso e incline all’ottimismo era
invece Giovanni, che continuava a muoversi intorno a Maria con la convinzione
che solo da lei si potevano avere notizie certe e sicure. Maria infatti, oltre
che conservare la sua consueta serenità, mostrava la consapevolezza e la
tranquillità di chi sa, mentre un’intima gioia traspariva dal suo volto. Si
vedeva però che essa si teneva volutamente fuori da ogni discussione e, come
sempre, aspettava l’intervento del Cielo.
Cleopa e Mattia, da parte loro, visto che l’ambiente degli
Apostoli non era di nessun aiuto, pensarono che la cosa migliore era riprendere
il cammino e tornare a Emmaus, seguendo però la strada che esce dalla porta
occidentale di Gerusalemme per evitare la valle della Geenna. Dietro ai due
discepoli se ne andarono anche le donne alle quali si erano aggiunte nel
frattempo Marta e Maria di Lazzaro, Giovanna di Cusa e Maria di Marco,
desiderose anch’esse di vedere il sepolcro e rendersi conto dell’accaduto.
Partiti i discepoli e le donne, in casa tornò la quiete e
gli animi si placarono alquanto. Ne approfittò Pietro per uscire anche lui con l’intenzione
- diceva - di recarsi da Nicodemo o da Giuseppe d’Arimatea per avere da loro
qualche conferma.
La quiete tuttavia durò poco. Improvvisamente si udirono i
soliti colpi alla porta e la voce di Maddalena che chiedeva insistentemente di
entrare. Giovanni corse ad aprire e, come aprì la porta, vide Maddalena
buttarglisi al collo abbracciandolo e gridando: “L’ho visto! L’ho visto! È proprio lui; è vivo, è vivo! Mi ha chiamata
per nome, come faceva quand’era vivo… cioè quand’era con noi… insomma come mi
ha sempre chiamata, con la sua voce calda, inconfondibile! È proprio lui; gli
ho baciato i piedi trafitti e le mani piagate, e l’ho chiamato: Rabboni!
Maestro mio! Maestro mio!”. E così dicendo si mise a saltellare sulla punta
dei piedi come se ballasse, percorsa da fremiti di gioia incontenibile.
Giovanni abbozzò qualche tentativo per calmarla e poter capire quello che stava
dicendo, mentre accorrevano gli altri Apostoli attirati dalle grida gioiose di
Maddalena. Appena se la videro davanti, si fermarono con la faccia coperta di
delusione; Tommaso, Simone e qualche altro si allontanarono subito scuotendo il
capo, convinti che si trattava di crisi isteriche: “È impazzita! - mormorava Tommaso - È impazzita!”.
Calmatasi un poco, Maddalena si guardò intorno e fissò una
a una la faccia dei discepoli. Dalla loro espressione e dal loro silenzio capì
che le sue parole non avevano riscosso alcun credito. Allora si recò da Maria e
prendendole le mani: “Madre! - disse
- tu almeno mi devi credere! Non mi sono
sbagliata e nemmeno sono vittima di allucinazione. Credimi! Era proprio Gesù,
il nostro Gesù, il tuo figlio diletto, il mio amato Maestro e Salvatore! Io lo
credevo il guardiano del giardino, ma poi si manifestò chiaramente, con la sua
fisionomia, con la sua figura, con la sua voce che tu ben conosci. E mi ha
parlato di loro, dei suoi discepoli; li ha chiamati fratelli, e mi ha
incaricato di venire qui a dir loro che è vivo e che li vedrà tutti in Galilea”.
Maria le sorrise amabilmente e la invitò a calmarsi, poi se
la prese in disparte e: “Figlia mia,
- le sussurrò - certo che ti credo! Sono
sicura che era Gesù la persona che tu hai visto e che ti ha parlato. Ma tu non
meravigliarti se loro non ti credono. Sono ancora troppo sconvolti e impauriti
per tutto quello che è accaduto in questi giorni. E poi, ciò che tu hai visto,
è un miracolo troppo grande e troppo lontano da ogni aspettativa per essere
creduto subito. Inoltre, anche se Gesù ti ha incaricata di avvertire i suoi
‘fratelli’, l’apparizione che tu hai ricevuto, rimane una cosa particolarmente
tua, è un dono che il Signore ha fatto a te e lo ha fatto per te; è una carezza
che egli ha voluto darti. Perciò conservala nel tuo cuore, custodisci
nell’intimo della tua anima la gioia che essa ti ha procurato e che ti ricorda
l’affetto e la predilezione di Gesù. Con loro poi non insistere, li convincerà
il Signore”.
Giovanni, che s’era avvicinato a Maria, chiese a Maddalena
di raccontargli di nuovo l’accaduto anche nei particolari. Lo vedevo pensoso e
sempre più convinto che si trattava di una cosa seria, per niente inverosimile.
La quiete che l’intervento della Maddalena aveva per un
momento compromesso, andò completamente perduta quando, poco dopo, arrivò il
gruppo delle donne. C’erano tutte, ed erano vistosamente eccitate. Era successo
che, ritornate di nuovo al sepolcro, avevano avuto una apparizione di Gesù che
le salutava con affetto nuovo impregnato di pace e di gioia, e le incaricava di
annunciarlo agli Apostoli.
Piene di entusiasmo e insieme di timore di non essere
credute, tornarono da noi con il desiderio di far rinascere in tutti la
ritrovata speranza in Gesù e con la preoccupazione di non riuscire a convincere
gli Apostoli. In preda al loro entusiasmo, cominciarono a raccontare l’accaduto
agli Apostoli che erano accorsi e a tutti gli altri che erano in casa.
Parlavano tutte insieme e tutte volevano manifestare i propri stati d’animo, le
proprie emozioni, e raccontare qualche aspetto particolare del loro
imprevedibile incontro con Gesù.
La prima conseguenza fu una indescrivibile confusione,
tanto che, non riuscendo a interferire con le proprie domande, gli Apostoli
cominciarono a dare segni di fastidio e di insofferenza. Man mano che le donne
raccontavano, cresceva il loro entusiasmo e diventava sempre più manifesta la
loro gioia. Ma tutto questo era controproducente: più esse si infervoravano e
più perdevano in credibilità davanti agli Apostoli. Alla fine, il risultato fu
che essi le considerarono delle esaltate e giudicarono il loro racconto come
vaneggiamento.
La verità è che Gesù volle manifestarsi a coloro che lo
avevano cercato con amore e perseveranza, e non a quelli che si erano chiusi
nella loro paura e nel loro scetticismo, premiando la generosità delle donne e
la sincerità dei loro sentimenti. (…)
(…)
Per il
resto del racconto e per conoscere
meglio
la vita di Gesù e il Vangelo per intero
vi invitiamo
a leggere tutto il libro:
“In
quella casa c’ero anch’io” ed. Fede & Cultura
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