INTERVISTA A MARCO MANICA,
PRIMO AGGREGATO DELL'OPUS DEI A VERONA
Mi riferisco all’articolo apparso sul quotidiano “L’Arena” di domenica 26 luglio riguardante l’intervista realizzata dal giornalista Stefano Lorenzetto al dott. Marco Manica di Verona, nella sua veste di “consulente e formatore nell’area delle risorse umane” allo scopo di ricollocare nel mondo del lavoro coloro che, soprattutto da una certa età in su, lo hanno perso per quella nota crisi generale che sta avvolgendo da anni l’Italia.
Ed è proprio su questo aspetto della sua vita personale nell’Opus Dei, che forse mai avrei tirato in ballo se non ci fosse stata questa occasione, che vorrei soffermarmi, per offrire la mia breve testimonianza, in quanto la sua vicenda personale è collegata, anche se indirettamente, con la mia, per aver io vissuto l’identica esperienza vocazionale negli stessi primi anni dell’Opus Dei a Verona.
E nonostante io sia poi uscita dall’Opus dopo 13 anni, all’età di 30 anni, per una serie di eventi che hanno fatto capire a me e ai responsabili che non era più la mia strada, almeno come numeraria, sta di fatto che io sono sempre stata molto grata all’Opera per avermi dato una profonda preparazione ascetica e umana che tuttora forma il mio piccolo ma prezioso bagaglio di risorse spirituali al quale attingere nella buona e nella cattiva sorte.
Diciamo che fu per un incontro occasionale con un sacerdote diocesano, don Ferdinando Rancan, pure citato da Marco, che ebbi l’opportunità di conoscere e amare questo particolare cammino dell’Opus Dei, di cui mai avevo sentito parlare. Don Ferdinando infatti, durante un ritiro spirituale mi prospettò un tale vasto orizzonte di intima donazione personale a Dio e di apostolato nel mondo, senza abbandonare il mondo, anzi amandolo “appassionatamente”, come indicava il Fondatore dell’Opus Dei, San Josemaria Escrivà, (da me conosciuto personalmente a Roma), che riuscì a trasmettermi una gioia così profonda e liberante che era impossibile non comunicarla agli altri. Che poi, col tempo, ognuno di noi, anche se chiamato, faccia emergere il suo povero fardello di miserie, difetti e, Dio non voglia, perfino scandali purtroppo anche nella Chiesa e nelle Istituzioni più benemerite, soprattutto in quest’ultimo periodo di grande confusione morale e spirituale, nulla toglie al merito e alla santità di chi, come il santo Fondatore Escrivà o un semplice sacerdote come don Ferdinando, è riuscito ad aprire, con l’aiuto di Dio “i cammini divini della terra” in mezzo a grandi difficoltà e incomprensioni, tuttora esistenti, ma quasi inevitabili per chi cerca con fede la santità.
A onor del vero, sia a Verona che in buona parte del Nord-Est, non si può parlare dell’Opus Dei e di come sia miracolosamente arrivata fin qui da Roma in quegli anni del dopoguerra,
Ma a questo punto sorge una domanda: “Come ha potuto don Ferdinando venire in contatto con le persone dell’Opus Dei che vivevano a Roma, lui che era rimasto quasi sempre dentro il seminario diocesano di Verona in procinto di essere ordinato sacerdote?” Lo potremmo sapere meglio dalle sue stesse parole nel libro autobiografico “
Ferdinando Rancan si trovava nel Seminario di Verona sin da quando aveva 11 anni ottenendo la stima dei confratelli e del Rettore a tal punto che gli vennero affidati incarichi di formazione dei più giovani. Nell’ultimo anno prima della sua ordinazione sacerdotale, dovette subire una dolorosissima prova perché, a causa di un malinteso sorto per una negativa interpretazione di alcune sue poesie lette davanti al Vescovo in occasione di una festività organizzata in seminario, il seminarista Rancan venne da questo drasticamente e immediatamente espulso in quanto “soggetto dalla visione troppo esistenzialista della vita, frutto di una preparazione negativa e distorta, non consona ad un futuro sacerdote”. Dopo averlo umiliato davanti a tutta l’assemblea, il Vescovo gli intimò di andarsene entro un mese dicendo: “IO NON TI ORDINERO’ MAI!”
Nonostante i chiarimenti offerti al Vescovo da parte del Rettore, Mons. Albrigi sulla condotta irreprensibile del seminarista Rancan, il Vescovo fu irremovibile a tal punto che lo stesso Rettore dovette cedere, ma nel contempo si sentì in dovere di sostenere il povero malcapitato trovandogli alloggio presso l’abbazia di Maguzzano sul lago di Garda diretta dai sacerdoti del “don Calabria” di Verona, da dove avrebbe potuto continuare i suoi studi liceali interrotti dalla guerra, conseguire il diploma di maturità classica, per poi valutare entro l’anno il da farsi.
Dopo aver infatti conseguito nel 1950 questo diploma e visto il perdurare del rifiuto da parte del Vescovo, lo stesso Rettore Mons. Albrigi, gli consigliò di non tornare a Verona, (anche per evitare imbarazzanti umiliazioni per questo fatto inspiegabile che creò scompiglio e sofferenza tremenda soprattutto a sua madre vedova e a tutto il suo paese di Tregnago, parroco in testa, che erano pronti a festeggiare il novello sacerdote) ma gli consigliò di proseguire gli studi universitari iscrivendosi alla facoltà di “Scienze Naturali” presso l’università “La Sapienza” di Roma, ospite degli stessi sacerdoti del don Calabria che a Roma gestivano una parrocchia di periferia.
Fu così che, per una serie di circostanze, sia pure dolorose ma certamente guidate dalla “Mano paterna” del Signore nel buio della prova, il nostro autore, superato il primo trauma iniziale, non si ribellò, ma si prestò al “gioco di Dio” con piena fiducia e abbandono alla sua volontà, senza mai recriminare o inveire contro nessuno, ma seguendo la strada che gli si apriva davanti e che lo portò a Roma dal 1950 al 1954 circa, cioè gli anni necessari per conseguire detta laurea.
Nonostante questi anni romani di forzato esilio, da solo, in una città sconosciuta ma bella ed attraente da tutti i punti di vista, mai gli sfiorò l’idea di tradire il suo ideale sacerdotale perchè era certo che prima o poi lo avrebbe raggiunto, a Verona, e con lo stesso Vescovo, perché sempre rifiutò il suggerimento di chi gli diceva di farsi ordinare prete dal Vescovo di un’altra città. Infatti dal giorno in cui uscì dal seminario “obtorto collo” mai smise di indossare la sua veste talare, che in quegli anni portavano anche i seminaristi, proprio per evitare che, soprattutto all’università, dove c’erano anche brave ragazze intenzionate a cercare un fidanzato per formarsi una famiglia, potessero mai nutrire qualche speranza nei suoi confronti.
Risolto poi il “malinteso” col Vescovo, col quale don Ferdinando cercò di mantenere pazientemente un rapporto di stima e cortesia, andandolo a trovare durante le vacanze estive e rassicurandolo circa la sua preparazione spirituale, fu finalmente riaccolto con gioia nel seminario dove, completati gli studi teologici, ricevette finalmente l’Ordinazione sacerdotale il 28 giugno 1953 dallo stesso Vescovo che lo aveva espulso, come da sua interiore certezza che mai lo abbandonò.
Don Ferdinando non si distinse per particolari doti straordinarie, ma per essere stato un vero sacerdote, vero “alter Christus”, buono e fedele, spesso malato, come lui stesso aveva accettato un giorno per essere partecipe dei dolori del Sacro Cuore di Gesù, uomo di profonda preghiera, semplice, dotto ma umile, anche simpatico, allegro e di compagnia, sempre disponibile per tutti. Infatti don Ferdinando, pur accettando come volontà di Dio di vivere la spiritualità dell’Opus Dei e diffonderla nella zona di Verona e dintorni, era e volle rimanere profondamente SACERDOTE DIOCESANO, come vuole lo spirito dell’Opus Dei, giuridicamente vincolato al suo Vescovo dal quale dipendeva e al quale prestava la sua obbedienza. Infatti seppe gestire bene l’incarico di parroco ai Santi Apostoli, rimanendo a disposizione di tutte le anime che lo cercavano, senza distinzione, anche di sacerdoti e religiosi, sposi, fidanzati… per confessioni, direzione spirituale, consigli ecc.
Quello che proprio non riusciva ad accettare don Ferdinando era il cosiddetto “pensionamento” per i sacerdoti perché, non secondo lui, ma secondo la dottrina perenne della Chiesa, il sacerdote non va mai in pensione in quanto rimane “Sacerdos in aeternum”. Semmai cambia di mansione ma, ovunque si trovi, un prete deve esercitare sempre il suo ministero sacerdotale, tranne il caso di malattia, e non rinchiudersi a vita privata quasi inaccessibile agli altri col rischio di cadere in depressione. Infatti d. Ferdinando, pur essendo di scarsa salute, volle essere SEMPRE SACERDOTE nel pieno esercizio del suo ministero a disposizione delle anime, fino all’ultimo suo respiro, che esalò al compimento del suo 90.mo compleanno, il 10 gennaio 2017, dopo aver chiesto sul letto di morte ai vicini che lo assistevano, in un momento di risveglio dal coma “Portatemi a casa perché voglio dire la Messa”. Questo era il suo pensiero costante: la Messa tutti i giorni, e all’occorrenza anche più di una, fino a tre o quattro la domenica quando era più giovane.
Perché questa mia digressione dall’argomento principale che è l’intervista a Marco Manica?
Forse è normale questa descrizione flash per uno come Marco abituato all’ironia con immediatezza epidermica quasi irrazionale, ma sembra che neppure gli altri soci dell’Opus Dei tengano vivo il ricordo di questo loro cofondatore esemplare, a quanto risulta, mentre di solito nelle famiglie “normali” è motivo di orgoglio avere un figlio che si distingue per particolari doti o virtù.
Comunque la prassi e la morale insegnano che esiste nei confronti di certi particolari benefattori, non i soliti ricconi improvvisati che si sentono il centro di tutto, bensì quelli poveri ma scelti da Dio per qualche missione speciale come nel caso di d. Ferdinando, un dovere non solo di gratitudine ma anche DI GIUSTIZIA, e ignorare questo dovere è assai pericoloso perché c’è il rischio che il Signore ritiri le sue benedizioni sia dalla Istituzione che dai responsabili che sono venuti meno a questi doveri.
Coraggio Marco, don Ferdinando dal Cielo continua a fare il tifo per te. Tu cosa fai per lui?
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