Con vera gioia ho ricevuto il permesso di trasmettere anzitempo questa testimonianza molto interessante di mons. Ezio Falavegna, parroco dei Santi Apostoli in Verona e Vicario Episcopale, riguardante il significato della Croce nella persona di un sacerdote diocesano che ha lasciato una forte traccia di sè: DON FERDINANDO RANCAN. Dico “anzitempo” perché questo scritto era destinato, come altri, ad ingrossare la raccolta di testimonianze sulla vita di don Ferdinando che sta curando il rev. don Ermanno Tubini, per essere pubblicata in un volume in data da destinarsi, ma non appena ebbi la provvidenziale occasione di leggerlo, mi ha talmente colpita e commossa che sono riuscita a “estorcere” questo permesso perchè sono certa toccherà il cuore anche a molti lettori.
Affinché si possa comprendere meglio lo
scritto di mons. Falavegna, ho ritenuto opportuno farlo precedere da questa
breve descrizione da parte della sottoscritta che ha avuto la provvidenziale
opportunità di conoscere entrambi, più o meno, allo scopo di mettere in luce
alcuni aspetti della loro vita o di circostanze grazie alle quali si sono
trovati a svolgere determinati compiti che hanno avuto come centro comune la
parrocchia dei Santi Apostoli, oltre al fatto di essere vissuti entrambi nello
stesso seminario per alcuni anni, don Ferdinando come docente e mons. Falavegna
come studente.
Infatti don Ezio, come noi fedeli veronesi
comunemente e affettuosamente lo chiamiamo, è stato il terzo successore di don
Ferdinando nella parrocchia dei Santi Apostoli come parroco e possiamo dire che
ne ha seguito l'esempio non solo nella cura della chiesa e annessi, oltre che
del suo arredo liturgico, ma anche nel privilegiare la cura verso i sacerdoti,
soprattutto giovani vocazioni straniere, che don Ezio ha da sempre
generosamente ospitato presso la sua parrocchia, grazie anche alla ristruttura
realizzata a suo tempo da d. Ferdinando negli anni 1983/85 che ha permesso di
ottenere nel secondo piano dell’ampio complesso della canonica ben cinque
mini-appartamenti per sacerdoti, cioè studio, camera e bagno.
La parrocchia, infatti, o meglio detto,
la Pieve dei santi Apostoli è una delle quattro Pievi battesimali di Verona, e
nel 1077 ottenne il titolo di “Basilica” con Arciprete e vari canonici, tanto
che, fin dal secolo X, era nota come sede di una Congregazione sacerdotale
riconosciuta dallo stesso Imperatore e confermata poi da Papa Lucio III i cui
resti mortali sono sepolti nel Duomo di Verona essendosi trasferito
provvisoriamente nella nostra città per questioni politiche e proprio a Verona
venne a mancare nel 1185.
Anche negli ultimi decenni, coi parroci
mons. Accordi e soprattutto con Mons. Carlo Signorato, si contavano nella
parrocchia dei Santi Apostoli fino a 6, 7 sacerdoti. Certo non si trovavano lì
per oziare in allegra compagnia, ma per avere una parrocchia come punto di
riferimento e sede logistica, dalla quale poi partire ogni mattina, sotto
l’obbedienza del Vescovo, per occuparsi di molteplici attività ministeriali e
pastorali nell’ambito della diocesi.
Forte di questa millenaria tradizione
storica legata appunto a questa Pieve, è sempre stato desiderio di don
Ferdinando di non interromperla, per quanto possibile, nonostante il mutare dei
tempi e situazioni, ma di utilizzare quegli spazi soprattutto in favore dei
sacerdoti, o per motivi di impegno ministeriale sopra descritto o per brevi
periodi di studio o riposo o per altre necessità e circostanze.
Per questo motivo d. Ferdinando fu ben
lieto quando venne a sapere che anche d. Ezio stava seguendo, più o meno, lo
stesso intento, ospitando giovani sacerdoti stranieri per dare loro la
possibilità di approfondire, in un clima di raccoglimento e fraternità, i loro
studi e la loro formazione, visto che mons. Falavegna è stato docente presso lo
studio teologico San Pietro Martire e San Zeno dal 1993, e attualmente presso
la facoltà teologica del Triveneto dal 2007.
Senza dire che lo stesso mons.
Falavegna si era prestato ad accogliere nella sua parrocchia dei Santi Apostoli
con molto affetto e generosità l’ex parroco suo confratello, don Ferdinando, in
occasione della celebrazione del suo sessantesimo di ordinazione sacerdotale,
nel 2013, con una Santa Messa solenne che ha visto la chiesa gremita da
parrocchiani, amici e parenti, celebrazione conclusasi con un elegante
rinfresco nel grande salone allestito a tale scopo.
Ma al di là di tutto questo e di altre
vicende pastorali vissute, talvolta anche con qualche disaccordo, dai nostri
due protagonisti nel corso di alcuni decenni, come capita, penso che l’evento
che li ha maggiormente uniti in una particolare e delicatissima “sintonia
spirituale” sia stata proprio l’esperienza
della Croce vissuta da don Ferdinando come “nervatura” sottile ma continua
di tutta la sua vita offerta volontariamente a Dio fin da piccolo.
A ragion del vero, ci sono alcuni passaggi
dello scritto di don Ezio davvero commoventi perché si percepisce come “la
Croce” di cui parla riferendosi al suo confratello don Ferdinando, in un certo
senso riflette anche la sua croce, che non è solo frutto di doverosi
approfondimenti teologici, ma di esperienza personale vera, vissuta, sofferta e
toccata più volte nella vita anche nelle fibre più intime della sua persona e
del suo rapporto di comunione con Dio.
Chiedo scusa se mi sono permessa di
fare questa mini-introduzione, ma credo che questi brevi chiarimenti possano
apportare maggior luce nella comprensione di tutta la bellissima testimonianza
che don Ezio ha realizzato in una forma sintetica ma efficace, commovente e
profonda.
Buona lettura.
Patrizia Stella
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“il
filo conduttore” dell’agire di Dio
Rileggendo
l’autobiografia di don Ferdinando Rancan, “Un Somarello e la sua storia”[1],
non è difficile riconoscere come nel “portare la croce” egli colga “il filo
conduttore” dell’agire di Dio all’interno della propria esistenza. Infatti,
attingendo alla ricca spiritualità di san Josemaría Escrivá, don Ferdinando
scrive: «Mi ha fatto sempre profonda impressione quel pensiero di san Josemaría
Escrivá: “Incontrare la croce è il segno più certo di aver incontrato Cristo e
con lui la salvezza”. Il disegno di Dio per ciascuno di noi prevede infatti la
croce e solo attraverso la croce quel disegno ha il suo pieno compimento nella
nostra vita. È stato questo il filo conduttore che mi ha portato a rivisitare
gli avvenimenti del mio passato e a leggervi il disegno di Dio e l’azione della
sua Provvidenza»[2].
Così,
infatti, don Ferdinando rilegge la via della croce innanzitutto come un
percorso di vita, più che l’identificazione di un tragitto geografico. Per lui
il tema della via al seguito di Gesù qualifica l’esistenza cristiana e la vita
di comunità come esperienza che si riconosce viandante, pellegrina nella
storia, nel segno della speranza. È il cammino dentro il quale Gesù svela il
vero volto di Dio, fuori da ogni fraintendimento e in una novità assoluta: un
Dio che mostra la sua onnipotenza nella ostinazione di “amare fino alla fine”,
abbracciando la totalità dell’esistenza umana, anche nelle pieghe più estreme e
sofferte della vita.
Singolare
al riguardo è quanto scrive riflettendo su una figura di prete incontrato nel
periodo di studio presso l’Abbazia di Maguzzano: «Ancora una volta mi trovai di
fronte al mistero invincibile della presenza di Dio che dialoga in maniera
oscura, ma vincente, con la libertà degli uomini. Il pensiero che Dio porta
sempre a compimento i suoi disegni passando attraverso le vicende umane
costellate da limiti e da errori, diventava una convinzione sempre più chiara
dentro di me»[3].
Di
fatto tutta la vita di don Ferdinando è impregnata di questa logica di croce,
del desiderio di compiere la volontà di Dio e di una fedeltà che non lo sottrae
alle numerose ferite che la vita gli presenterà. Veramente impressiona lo stile
con il quale egli rilegge e ci consegna gli eventi e gli snodi più sofferti
della sua vita, come quello della sua infanzia, della sua malattia, della morte
del papà, e così di seguito.
Don
Ferdinando ha chiara la consapevolezza che su questa “via della croce”, il
discepolo è chiamato a seguire il cammino di Gesù. Sappiamo tutta la fatica dei
discepoli storici, come quella dei discepoli di oggi, ma non c’è una via
alternativa. Essa, la via della croce,
rimane il tracciato in cui esprimere la vita nella sua riuscita, il tracciato
in cui vivere la libertà dalle paure che bloccano nell’autoconservazione
ossessiva, il tracciato della disponibilità ad esprimersi nella forma della
gratuità più piena.
È
una “via”, quella della Croce, che come ogni strada mette in conto delle tappe
(“stazioni”), piccoli o grandi spazi di vita in cui riconoscere e assumere il
cammino percorso, ma anche la meta che sta davanti e che motiva l’andare.
Questo
itinerario sembra potersi sintetizzare in quattro momenti, quasi quattro
stazioni atte a sottolineare le tappe salienti di un cammino.
a. La Croce come la Parola più autorevole della passione di
Dio per l’umanità
Per
don Ferdinando è chiara la consapevolezza che il Dio che si manifesta nel
Figlio suo crocifisso, è un Dio che nella logica umana si consegna come
impotente e debole. Eppure è proprio in questa fragilità e debolezza che si
manifesta il volto di Dio. Quando pensiamo all’onnipotenza di Dio, spesso noi
immaginiamo la sua possibilità di agire senza limiti, mentre la sua potenza e
il suo splendore si rivelano nella
disponibilità a donarsi completamente, nella capacità di «amare fino alla fine»
(Cf. Gv 13,1). L’onnipotenza di Dio è veramente l’onnipotenza dell’amore. Ed è
una onnipotenza che si comprende dentro la trama del vissuto di Gesù, nella sua
disponibilità ostinata a ricollocare ogni incontro e ogni situazione nello
sguardo con il quale Dio guarda la vita: essa
contiene la parola di promessa e di pienezza che da sempre, fin dall’inizio,
Egli ha posto nelle sue creature («E vide che era cosa buona» Gn 1,12.19). A
dispetto di tutte le situazioni avverse, le lontananze e le prove che
inevitabilmente la vita consegna, c’è in essa una pienezza che scaturisce dalla
parola di Dio. Questa passione per la vita, per qualunque vita, è ben espressa
da don Ferdinando quando, ancora giovanissimo, al ritorno dal convento dei
Padri Cappuccini di Lonigo, facendo eco alle parole del Padre guardiano «faremo
quello che Dio vorrà», scrive: «Senza rendermene conto, io non pensai più a me
stesso, non mi preoccupai più del mio avvenire, né pensai a qualche prospettiva
futura. Mi affidai completamente alla vita; sarebbe stata lei a condurmi. Era
un modo inconscio, ma percepito con certezza per dire: farò quello che Dio
vorrà, sarà lui a provvedere per me»[4].
b. La croce come
scelta di campo
Per
don Ferdinando la croce non è intesa come un incidente di percorso, ma un modo
preciso di stare nella vita, di abitarla. Così come Gesù non la cerca, ma nel momento
in cui essa si presenta, “la sceglie”, con piena fedeltà all’amore che è capace
di ridare spessore e fiato anche alle situazioni più assurde e drammatiche. Don
Ferdinando sa bene che in questo cammino c’è la rivelazione del volto di Dio,
ma nel contempo anche di una vita pienamente riuscita. E questo non è solo per
i discepoli, ma è per tutti (Cf. Lc 9,23). A tutti è dato di sperimentare che
dove le situazioni ferite della vita vengono incontrate, accolte e vissute
nell’amore è possibile dare ad esse un senso di riuscita, anche se i fatti
sembrerebbero smentirla.
Più
volte lo stesso don Ferdinando sembra interrogarsi sul senso di una vita
segnata dalla sofferenza, sul come Dio possa rivelarsi in una vita schiacciata
dal peso del dolore. Egli stesso comprende che proprio attraverso la via della
croce c’è un appello a non fare della fede una professione confezionata, ma
piuttosto un'esperienza di intimità personale con Gesù.
C’è
un imperativo che accompagna tutta la vita di don Ferdinando, ed è quello di
assumere la rischiosa e responsabile scelta di fare insieme con Gesù Cristo
l’esperienza del cammino da Lui percorso. Potremmo quasi dire che molte pagine
della sua autobiografia ci rivelano come una “lotta”, un “corpo a corpo con il
Signore”, un nascondersi e un affacciarsi reciproco. Si può leggere questa
convinzione nel passaggio in cui scrive: «I momenti di buio e di dolente
aridità non riguardavano la mia vocazione né rubavano la pace intima alla mia
anima; riguardavano invece il mio rapporto con Dio. Si faceva buio quando
dentro di me si spegneva il senso vivo della presenza di Dio. Il Signore si
nascondeva, e scendeva il silenzio nella mia anima»[5].
La
croce, dunque, è la legge permanente della vita cristiana e non una soluzione
di emergenza. Nella via della croce c’è un appello a far sì che la fede
scaturisca dalla rischiosa e
responsabile scelta di fare insieme con Gesù l’esperienza del cammino di
fedeltà da lui percorso. La vita cristiana è un’esperienza vissuta, arrischiata
con le scelte personali, assunta con la propria responsabilità sulle orme del
maestro.
C’è
una pagina del libro che contiene in modo significativo l’intensità della sua
adesione al cammino vissuto da Gesù: presenta la scena in cui, passando dallo
studio alla cappella, vide «l’immagine di Gesù che teneva in mano,
nell’atteggiamento di offrirlo, il suo cuore ferito e sanguinante, circondato
da spine, avvolto dalle fiamme e sormontato da una croce. Il suo sguardo
intenso e dolcissimo si incontrò con il mio e subito mi ricordai delle sue
parole: “Ecco il cuore che ha tanto amato gli uomini e da essi non riceve che
ingiurie e indifferenza”. Quel tenue chiarore sul volto luinoso di Gesù che
accennava a un sorriso delicato e insieme severo mi lasciò profondaente turbato
e mi parve di intuire che senza dolore è difficile capire l’amore. Così mi
sentii spinto a chiedere con insistenza al Signore di soffrire molto per poter
vivere più profondamente l’intimità con Lui. Forse fu presunzione, forse
superficialità o incoscienza, ma credo che il Signore abbia accolto, almeno in
parte, la mia preghiera, perché nella mia vita non ho mai saputo cosa fosse il
benessere fisico»[6].
c. La croce racconta
il prezzo della fedeltà dell’amore
Possiamo
affermare che Don Ferdinando non ha cercato la croce, ma l’ha accolta nel
momento in cui si è presentata a lui come il prezzo della fedeltà all’amore
verso Dio e i fratelli. Se anche noi ci comportiamo così e restiamo sempre
disponibili al dono, anche se in un primo tempo rifiutato, la croce diventa
salvezza.
Fare
dono di se stessi, rimanendo liberi da se stessi, è la vera maturità della
persona. Accettando di prendere la nostra croce, di vivere cioè l’amore
costante e talvolta difficile che Gesù attesta, abbiamo la coscienza che la
vita cresce e si esprime nella misura in cui essa si consegna come dono di noi
stessi. In quel cammino di fedeltà alla logica dell’amore incondizionato e
gratuito la vita si manifesta non come un bene da conservare morbosamente per
sé, ma come un dono da spendere.
Impressiona
il racconto che don Ferdinando ci consegna riguardo alla sua infanzia, dove non
mancano pagine dal tono veramente drammatico. In un piccolo quadro di vita
nascosta, narra che la suora
nell’ospedale di Tregnago gli strappò dalle mani le figurine dei ciclisti
perché sconvenienti: riportando alla memoria l’amarezza vissuta in quel momento
scrive: «Il Signore intende prepararci alla croce anche attraverso i piccoli
dispiaceri dell’età infantile»[7].
Una
piccola e sfuggevole annotazione che gli permette di percepire che nella croce
il Signore è capace di donare speranza a tutti coloro che sono i crocifissi
della storia umana.
d. La croce come atto di abbandono
Una
ulteriore annotazione che impreziosisce la lettura che don Ferdinando fa
dell’esperienza della croce di Gesù è che egli trova in essa la certezza che in
quella morte si apre per tutti i credenti una nuova possibilità di vivere e di
morire. Gesù ha vissuto la sua morte lontano e abbandonato da tutti,
apparentemente anche dal suo Dio, senza venir meno alla fiducia e alla fedeltà
al Padre e mantenendosi aperto verso tutta l’umanità e tutta la realtà. In un
momento di particolare “umiliazione e di intima sofferenza” legata al rinvio di
una tappa verso il ministero ordinato per la precarietà della sua salute, ebbe
a scrivere: «Mi salivano allora spontanee le invocazioni del Salmo 53 …
“Svegliati, perché dormi, Signore?” … Sorgi, vieni in mio aiuto! Erano
invocazioni che, se non toglievano la solitudine interiore, contribuivano però
a mantenere il fondo dell’anima in uno stato di fiduciosa serenità»[8].
Facendo
eco a questi testi della Sacra Scrittura don Ferdinando, imitando Gesù Cristo,
ha offerto anche a noi la strada e il dono di poter vivere, soffrire, morire in
modo nuovo, cioè come figli e fratelli. Nella fede in lui ci è possibile vivere
e morire con questa estrema fiducia e apertura di amore, e portiamo così a
compimento, nella morte, la nostra vita come realtà di risurrezione.
È
nel testimoniare una piena fedeltà alla vita, restando aperti alla speranza
anche nelle situazioni difficili, riconoscendo e confessando il Figlio di Dio
crocifisso, che noi ci qualifichiamo come veri discepoli di Gesù, come figli di
un Dio che è l’Abbà.
La
via della croce ha permesso a don Ferdinando di raccontarci tutto questo,
perché ci immergiamo nella possibilità di assumerlo e di farlo proprio: «il
buio affliggeva la mia intelligenza che perdeva i riferimenti, la comprensione
dei significati, il contatto con le certezze garantite dalla luminosità della
fede! Non perdeva invece la luce il cuore che, pur nel silenzio di Dio, non
cessava di invocarlo. Non riuscivo a tacere perché pur nascondendosi, Dio
restava presente, e il cuore gridava come un bambino al buio che va cercando le
mani paterne, le mani di Dio. Furono quelli i momenti che mi aprirono a una
comprensione nuova e più chiara della sofferenza e del dolore. Il mio rapporto
con Gesù divenne più completo e profondo: dalla devozione all’amore che si dona
nell’Eucaristia, imparai a vedere l’amore che si immola sul Calvario per me»[9].
Don Ezio
Falavegna
[1]F. Rancan, Un
somarello e la sua storia. La storia della mia vocazione sacerdotale e del mio
incontro con l’Opus Dei, a cura di E. Tubini, Verona Fedele Editrice,
Verona 2018.
[2]F. Rancan, Un somarello
e la sua storia, 149.
[3]F. Rancan, Un
somarello e la sua storia, 73.
[4]F. Rancan, Un
somarello e la sua storia, 160.
[5]F. Rancan, Un
somarello e la sua storia, 224.
[6]F. Rancan, Un
somarello e la sua storia, 226-227.
[7]F. Rancan, Un somarello
e la sua storia, 186.
[8]F. Rancan, Un
somarello e la sua storia, 225.
[9]F. Rancan, Un
somarello e la sua storia, 225-226.
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